Perché la fine di Deadspin dovrebbe farci preoccupare, tutti

La chiusura di uno dei migliori siti di giornalismo sportivo americano è un sintomo dell'appiattimento dei contenuti, in rete e non solo.

Lo scorso primo novembre Deadspin ha pubblicato un articolo di una sola parola. Una domanda nel titolo, la risposta nel testo. «Deadspin era un buon blog sportivo?», il titolo. «Sì», l’articolo. Un requiem ironico e genuino, in pieno stile Deadspin, per raccontare quel che era successo nei giorni precedenti a uno dei giornali online più seguiti d’America, decretandone la fine. Riassumendo i fatti brevemente: lunedì 28 ottobre il top management di G/O Media, il gruppo editoriale di cui fa parte il sito – di proprietà della Great Hill Partners, che ha acquistato il gruppo ad aprile – ha inviato un promemoria ai dipendenti di Deadspin ordinando loro di pubblicare solo contenuti sportivi, e nient’altro: «Per fare il miglior giornalismo sportivo dobbiamo concentrarci al 100% sullo sport, sarà il nostro unico interesse», diceva il memorandum. In pratica, i dirigenti chiedevano a Deadspin di smettere di essere se stesso, di avvicinarsi a quella miriade di siti sportivi di qualità infima che riempiono le loro colonne solo di tabellini e riassunti delle partite, senza idee né riflessioni. Il giorno dopo, martedì 29, il caporedattore Barry Petchesky – che aveva preso il posto di Megan Greenwell a fine agosto, dopo il licenziamento di quest’ultima per incompatibilità con la visione della nuova proprietà – è stato licenziato per aver rifiutato l’ordine. Dopo altre ventiquattro ore i membri più influenti della redazione hanno protestato, per poi dimettersi in blocco.

Entro la fine della settimana era chiaro a tutti che Deadspin aveva raggiunto e superato un punto di non ritorno: il giornale scomodo, sarcastico e irriverente che dal 2005 aveva contribuito a cambiare il modo di fare giornalismo online, soprattutto il giornalismo sportivo, avrebbe smesso di esistere per come lo conoscevamo. Non è crollato tutto in pochi giorni, c’erano dissidi interni che avevano minato la stabilità della redazione fin dall’arrivo della nuova proprietà. Ma quell’ordine, che si può riassumere nella frase «stick to sports», è tutto quel che Deadspin non voleva essere e non era mai stato, e il licenziamento di Petchesky è stata solo l’ultima goccia.

Deadspin non è mai stato un sito di sport e basta. Intanto perché produceva una gran quantità di contenuti non sportivi. L’attenzione alla società, alla politica, alla cultura pop e poi ai temi più leggeri, hanno sempre fatto parte del gioco, raccontati con tono irriverente e colloquiale, spesso presentati con un umorismo non-politically correct – rispettando personalità e sensibilità di chi vi scriveva, creando ogni giorno contenuti originali. Un esempio, l’amministrazione Trump è stata raccontata, descritta, presa in giro, da più angolazioni, affrontata con il tono che le è più indicato: quello di una commedia grottesca che può far ridere, ma fino a un certo punto.

Ad ogni modo, sarebbe sbagliato pensare a Deadspin come un circolo di cazzari – intesi come autori e lettori – che si trastullano con le prime idee che gli passano per la testa. O con le storie che trovano sul web, come quella del ladro di zucche: un post di non più di 500 battute, un paio di video e una gif, che si chiude con «non rubate. Ma se dovete farlo, fate in modo che sia divertente». Deadspin era anche questo. E poi aveva un’intera area di giornalismo investigativo e hard news che negli anni aveva rafforzato la credibilità del sito agli occhi della massa di lettori. È il caso delle intercettazioni che nel 2014 hanno incastrato Donald Sterling, ex proprietario dei Los Angeles Clippers, per le sue frasi razziste contro gli afroamericani, molto prima che la lega lo facesse sparire dagli archivi. Oppure come l’attenzione riservata al caso Gamergate nello stesso anno – si parla di una campagna online di minacce e molestie, nata su internet, che parte dal presupposto che quello dei videogiochi è, e deve essere, un mondo soprattutto maschile.

Come ha scritto Jonathan Liew, caporedattore della sezione sport dell’Independent, «ciò che distingueva Deadspin era che non sapevi mai cosa sarebbe venuto dopo. Poteva essere un’inchiesta inaspettata, un articolo di tremila parole sullo snooker, un video divertente su un politico che diceva qualcosa di stupido, o un ranking di creature mitologiche. Per un’intera generazione di nativi digitali, Deadspin non era solo un sito di notizie, ma una sorta di anarchico manuale di auto-aiuto».

Donald Trump ha seguito una partita delle World Series allo stadio, e non è stato proprio accolto benissimo dal pubblico. Deadspin, ovviamente, ha scritto un articolo su questa vicenda (Tasos Katopodia/AFP via Getty Images)

La fine di Deadspin, di quel Deadspin, danneggia, prima di tutto la Great Hill Partners. In quanto società di private equity, questa avrebbe acquistato il gruppo editoriale con l’idea di rivenderla realizzando un ricavo. Ma dopo quel che è successo potrebbero aver sbriciolato ogni asset: la realtà aziendale di un giornale online nel 2019 – specialmente se sportivo – è ancora intesa come un luogo dove gli utenti vogliono rafforzare i loro pregiudizi senza dover pensare. Ma non può valere per tutti i giornali: Deadspin era esattamente l’opposto. Ma ovviamente la vicenda non si esaurisce qui. Va molto oltre. È un discorso che esplora il ruolo dello sport e del giornalismo nella società, sfora nella libertà di espressione e nel diritto di cronaca e di informazione.

Lo sport, e il giornalismo sportivo con esso, dovrebbe essere confinato solo alle questioni di campo, o ha il permesso di sconfinare anche in dibattiti economici, politici, sociali? O meglio, la domanda dovrebbe essere: è davvero possibile murare lo sport al di fuori di tutto, come se le partite, le gare, tutte le competizioni, si svolgessero nel vuoto? Davvero pensiamo che sia possibile separare lo sport dal resto del mondo? La risposta dovrebbe essere intuitiva, scontata. Ma forse non lo è per tutti. O quanto meno viene messa in discussione ogni volta che qualcuno dice a un giornalista sportivo «stick to sports». La risposta è nelle parole che ha scelto Barry Petchesky in un pezzo d’opinione sul New York Times qualche giorno dopo il suo licenziamento: «La mia posizione rimane la stessa degli innumerevoli incontri con la direzione in cui ho spiegato che lo sport non finisce quando i giocatori tornano negli spogliatoi. Raccontare lo sport richiede consapevolezza di non poter oscurare le partite dal mondo esterno. Per qualsiasi persona che sa qualcosa di sport o se ne frega qualcosa del mondo al suo esterno, l’idea che lo sport possa essere raccontato solo attraverso un tabellino è assurda». Pensare di poter separare artificialmente lo sport da tutto il resto non ha nessun senso.

Dopo tre anni di esclusione forzata, Colin Kaepernick ha svolto un workout con la Nfl (Carmen Mandato/Getty Images)

Oggi questo discorso vale ancora di più. In un momento storico in cui il discorso politico si estremizza, in cui le posizioni sono sempre più polarizzate, lo sport inevitabilmente connesso con la realtà in cui è immerso. E non si può far finta di guardare dall’altra parte. Quel che succede sui campi da calcio della Serie A o della Premier League quando vengono fischiati e insultati Balotelli, Koulibaly, Sterling, non può essere separato da un humus culturale di razzismo e ignoranza che c’è e va denunciato. Quando LeBron James usa delle frasi che non farebbero parte del suo linguaggio per riferirsi al caso Cina-Daryl Morey ci ricorda il lato oscuro del suo essere “more than an athlete”. Quando Colin Kaepernick si inginocchia durante l’inno nazionale perché non vuole onorare la bandiera «di un Paese che opprime i neri e tutte le persone di colore», e questo gli costa la carriera, non si può far finta che si parli solo di football americano.

Il confine tra lo sport e gli altri segmenti della società sono sempre più sfumati, mescolati l’uno con l’altro. Il giornalismo sportivo non può fare a meno di partire da questo assunto per descrivere la realtà. E di questo principio la redazione di Deadspin ne aveva fatto un pilastro: basta leggere l’articolo di Ray Ratto sulle World Series 2019, quando i tifosi fischiarono Trump. «Nationals Fans Didn’t Stick To Sports», il titolo spiega già molto. Il fatto che Deadspin continui ad esistere, ma in una versione edulcorata, sbiadita – come Sports Illustrated, che sui media americani è affiancato dalla parola zombificato – deve necessariamente essere inteso come una sconfitta per chi non si accontenta di guardare lo sport come una banale sequenza di gesti atletici e gesti tecnici, per chi prova a raccontarlo in tutti i suoi aspetti, anche quelli meno piacevoli. L’alternativa è accettare che si appiattisca tutto al livello di comprensione più elementare. L’avvertimento è quello che fa lo stesso Barry Petchesky in coda al pezzo sul NYT: «Continuerà a succedere, per ogni nuovo giornale ambizioso che verrà fuori due verranno zombificati. Gli angoli saranno smussati. Le pillole più amare omogeneizzate in una pappina beige insapore. Tutto quel che ti era piaciuto sul web sarà sostituito da quello che piace alla massa, o da quello che porta un sufficiente numero di clic e far girare per tre secondi una pubblicità in autoplay. Le voci uniche saranno zittite, o annullate del tutto».