Storia illustrata del San Lorenzo anni Quaranta, la squadra che ha fatto innamorare Papa Francesco

Già da bambino, il Papa era socio e tifoso di un club storia bellissima e complicata, profondamente legata al suo quartiere.

Pochi più di quattro chilometri dividono il civico 521 di Avenida Membrillar dal 1785 di Avenida de La Plata. Sono undici minuti di macchina, una mezz’ora di mezzi (sì, avete letto bene), si fa quasi prima a piedi. A Buenos Aires delle strade enormi dividono in due o tre parti quartieri e città. Dici Avenida Rivadavia e in base al numeretto di fianco puoi trovarti a sud o a nord della capitale argentina. D’altra parte la città l’hanno costruita gli spagnoli. E l’hanno fatta imperiale, come piaceva a loro. Negli anni Quaranta, Avenida de La Plata separava un paio di barrios, come si dice da quelle parti: Flores, zona residenziale molto religiosa e Boedo, dove vivevano gli artisti. Alla maniera degli artisti, naturalmente. Forse è esagerato parlare di paradiso e inferno attaccati l’uno all’altro, ma per dare un’idea basti immaginare casa Simpson e casa Flanders.

Un paio di domeniche al mese, però, i due mondi venivano in contatto. La messa a Flores, la partita a Boedo, dove sorgeva il Gasómetro. Un indirizzo iconico per tutti, 1785 Avenida de la Plata. Non si poteva sbagliare, bastava andar dritto fino a uno stadio tutto in ferro, costruito dai residenti, che assomigliava a un gasdotto. Da qui il nome Gasómetro. L’inquilino del 521 Membrillar ci andava a piedi. Al mattino preghiere e comunione, al pomeriggio il calcio: un rituale che fa tanto Argentina, un Paese dove sacro e profano tendono a confondersi. L’inquilino era un ragazzino, si chiamava Jorge. Mario di secondo nome, come il papà, ex giocatore di pallacanestro. Il cognome segnato sul documento era Bergoglio. Portava sempre una sciarpa rossa e blu, i colori della sua squadra del cuore, il San Lorenzo de Almagro, fondato qualche chilometro più a Nord da un gesuita mezzo italiano, don Lorenzo Massa.

Del rapporto con il fútbol di Bergoglio (dal 2013 Papa Francescoo) si è detto e scritto tantissimo in questi giorni di celebrazione del suo Pontificato. Di quando ha cresimato Ángel Correa, attaccante dell’Atletico ed eroe della Copa Libertadores del San Lorenzo 2014, l’anno successivo alla sua elezione. Si è parlato della seconda Mano de Diós, sempre nel 2013, il rocambolesco gol (viziato da un fallo di mano) con cui gli azulgrana hanno sconfitto il Colon con addosso una t-shirt celebrativa per Bergoglio. Si è ricordato il numero della sua tessera da socio, la numero 88235N-0: un rettangolino che serve a creare identità, a sentirsi comunità, come in una chiesa. Andava rinnovata ogni anno, come un rito.

Ma da dove nasce questa vocazione laica? È la storia di un innamoramento, di come un ragazzino di dieci anni ha cominciato ad appassionarsi a una squadra e a un calciatore che ha portato con sé fino agli ultimi giorni della sua vita. Tanto che Bergoglio l’ha ricordato anche anche al più grande calciatore argentino secondo tutti, ma non secondo lui: in un incontro pubblico con Diego Armando Maradona, organizzato alla vigilia di una partita di beneficenza, il Papa gli ha chiesto se si ricordasse di Pontoni, il suo centravanti. Maradona, nato circa vent’anni dopo quegli anni indimenticabili, ha annuito.

I primi anni Quaranta del San Lorenzo si aprono con un rinnovamento della squadra e dell’assetto societario. Il presidente Enrique Pinto, che resta in carica fino al 1945, porta il numero di soci a trentatremila, rimpingua le casse e dà inizio ad una serie di attività culturali parallele nel quartiere, come la realizzazione di una grossa biblioteca, dove lavora anche Borges. Contemporaneamente crescono le infrastrutture delle altre discipline, legate alla polisportiva: una nuova piscina olimpionica, nuove palestre e nuovi campi da hockey. La sede di Avenida de La Plata fa invidia a tutti i club d’Argentina, si organizzano addirittura corsi di cucito, musica, danza classica, disegno. Le iniziative portano cospicui introiti, e, forse per la prima volta, il San Lorenzo gode di una buona salute finanziaria. Grazie a questi fondi si può operare sul mercato in modo significativo con l’arrivo di molti giocatori dalle province limitrofe. Si gettano le basi per la definizione di uno dei più grandi tridenti d’attacco mai avuti a Boedo: Martino, Pontoni, Farro.

“Mamucho”, lo chiamano così, Rinaldo Martino, i suoi compagni, scherzando sulla sua tendenza a dire “mas mucho” invece di “mucho mas”, l’espressione corretta per intendere “molto di più”. L’allenatore – Imre Hirschl, uno dei maestri ungheresi partiti a diffondere il calcio nel mondo – gli cambia il ruolo, da mezzala destra ad ala sinistra, per sfruttare il suo dribbling fulminante; partendo da sinistra può rientrare, accentrarsi e andare al tiro. Per tale caratteristica, più di una volta, vince la classifica cannonieri chiudendo la sua carriera in maglia azulgrana con 164 goal in 245 partite. Non si allontanerà mai dal quartiere, a cui evidentemente lo lega qualcosa di magico. È l’anima degli allenamenti di giorno e delle sale di tango di notte. I suoi autori più amati – Pugliese, Gardel e Goyene – quasi lo guidano anche in campo, i loro tangos futbolistíci . Al suo ritiro aprirà il “Caño 14”, una delle sale più in voga negli anni Sessanta.

Tanto estroverso Martino, quanto introverso Pontoni. Schivo e riservato, “El Huevo” approda al San Lorenzo nel 1945, dopo i venti gol segnati nel Newell’s, sulla spinta della Copa América dello stesso anno – è stato il miglior giocatore del torneo. Pontoni è il centravanti più forte in tutto il Sud America, lo hanno plasmato l’impostazione tecnica imparata negli anni del Gimnasia y Esgrima di Ciudadela (sua prima squadra) e la scaltrezza tattica e la conoscenza del gioco sviluppata negli anni del Newell’s. L’ultimo componente del terzetto, Armando Farro, è il meno celebrato dei tre, ma senza di lui il gioco del Terceto de Oro non sarebbe stato così devastante: è un attaccante esterno dallo stile moderno, si abbassa a ricevere il pallone, innesca le punte, si inserisce in modo fulmineo.

Come ricordato da Stefano Borghi nel libro San Lorenzo De Almagro. La squadra del cuore di Papa Francesco, da questi presupposti nasce la cavalcata del 1946 che conduce il San Lorenzo al secondo titolo nazionale professionistico, conquistato all’ultima giornata, sul campo del Ferro Carril, con un secco 3-1 e con l’appoggio di trentamila tifosi al seguito. Uno di quei trentamila, che allora aveva dieci anni, nel 2013 spedirà una lettera da Roma, ricordando al suo club «quel famoso goal di Pontoni». Non c’è bisogno di ricordare chi fosse.

Il San Lorenzo, nella sua storia, ha sempre avuto una concezione ciclica degli assi spaziali e temporali che gli ruotavano attorno; dopo le grandi vittorie la società ha ogni volta deciso di distruggere il giocattolo e di ricostruirlo completamente. Succede anche in questo periodo, quando i pochi investimenti si sommano alle fatiche dei tour europei. E così, inevitabilmente, i risultati vengono meno: vanno via Pontoni e Martino, poi nel 1949 muore Padre Lorenzo Massa. L’eredità lasciata è significativa, il suo piano si è realizzato: a Boedo esiste un’associazione che rappresenta una comunità sempre coinvolta nel progetto, una realtà sociale che è un modello per tutto il mondo.

Da allora l’universo intorno al club è cambiato parecchio. Una gestione economica scellerata ha portato anche alla perdita delle concessioni territoriali dell’area dello stadio. Nel 1979 il San Lorenzo è stato più o meno gentilmente accompagnato all’uscita di Boedo e ha dovuto costruirsi un impianto non a Flores, ma a Bajo Flores, quartiere molto meno chic. Solo nel 2019, dopo un’infinita battaglia legale con una multinazionale della distribuzione alimentare, proprietaria del sito 1785 di Avenida de la Plata, la società è riuscita a riprendersi il suo posto del cuore e della storia. I lavori per il nuovo stadio non sono ancora terminati, ma il nome è noto da tempo: sarà il Papa Francisco. Boedo, Bergoglio e Pontoni. Una cerchio che si chiude.

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Foto di Fabio Simonelli