Tutte le famiglie felici sono uguali, ma quella dell’Empoli lo è a modo suo. In un modo che oggi sembra superato, sorpassato dai tempi, dall’evoluzione del calcio. E invece no: quest’anno l’Empoli gioca per il quarto anno di fila in Serie A, per la prima volta nella sua storia, si è qualificata in semifinale di Coppa Italia, traguardo inedito, e a quel modo, a quella sua filosofia, non ha mai rinunciato. Fare molto con poco. Rendere una città di poco meno di 50mila abitanti una presenza fissa, o quasi, del massimo campionato di calcio italiano. Appartenere all’élite senza essere élite. Sgomitare con fondi stranieri, capitali di Oltreoceano, progetti faraonici, con la stessa proprietà, a conduzione familiare, da oltre trent’anni.
Era il 1991 quando Fabrizio Corsi venne scelto come presidente dell’Empoli, in un momento critico per la società. Già suo padre partecipava al consiglio d’amministrazione del club, negli anni Sessanta. Oggi il legame tra la famiglia Corsi e l’Empoli continua con Rebecca Corsi, figlia di Fabrizio, vicepresidente e amministratore delegato degli azzurri. Rebecca Corsi è l’unica donna alla guida societaria di un club di Serie A. Nel 2022, inoltre, è stata eletta consigliere della Lega: tra le donne, era successo solo a Rosella Sensi, fino al 2011. È un altro segnale di specificità, di voglia di fare le cose alla propria maniera: anche in questo l’Empoli è una società che sa distinguersi. Si potrebbe parlare di modello Empoli, ma in fondo è la normalità diventata eccezione.
E anche quando si parla di obiettivi, di piani e di ambizioni, Rebecca Corsi non promette scenari da sogno: ragiona con trasparenza e realismo. «A noi non piace fare ragionamenti troppo a lungo termine. Ci piace pensare di doverci conquistare la Serie A ogni volta, partita dopo partita. Non vogliamo pensare che la A ci spetti di diritto. Mi piacerebbe fare grandi progetti, ma non è la nostra dimensione. Per dimensioni, per numeri, per bacino d’utenza la categoria dell’Empoli non è la Serie A. Ci siamo perché ce la siamo meritata, ce la siamo conquistata, però dobbiamo vivere il presente».
Ⓤ: Nel frattempo vi siete conquistati un’incredibile, e inedita, qualificazione alle semifinali di Coppa Italia dopo aver eliminato la Juventus.
È stata una serata storica per tutti noi, per l’Empoli, per la squadra e per tutti i tifosi. La squadra ha fatto una grandissima gara, giocando senza timore contro un avversario come la Juventus in uno stadio bellissimo. Da questo passaggio del turno dobbiamo prendere entusiasmo e consapevolezza. Deve essere un’iniezione di fiducia e farci ricordare quello che per lunghi tratti abbiamo fatto nell’arco della stagione e riprendere la corsa al nostro vero obiettivo. La soddisfazione è ancora maggiore se penso che avevamo in campo quattro ragazzi del nostro settore giovanile. Hanno risposto benissimo ma è solo una tappa del loro percorso e sta a loro essere bravi in ogni occasione in cui sono chiamati in causa. Penso alle gare con la prima squadra ma anche a quando tornano in Primavera, mettendo a disposizione del gruppo l’esperienza acquisita.
Ⓤ: Come affrontate il presente, come riuscite a restare “attuali” di fronte alle trasformazioni del calcio di oggi?
Cercando di non snaturarci. Quando in passato abbiamo fatto il passo più lungo del normale, quando abbiamo provato a darci un’impostazione da squadra di altro livello, che fosse con acquisti più onerosi o squadre più competitive, abbiamo commesso degli errori. Quindi il segreto è rimanere noi stessi. Continuare a lavorare con i giovani, a credere in loro, mandarli in campo quando li riteniamo pronti.
Ⓤ: Una proprietà italiana, ancora meglio una famiglia italiana, alla guida di un club di Serie A, è sempre più un’anomalia. Non siete passati, come tante altre squadre di A o B, dai capitali stranieri.
L’Empoli ancora non ci è passato perché non c’è stata ancora, evidentemente, la scarpa giusta per il nostro piede. Siamo sicuramente aperti a delle proposte, perché fare calcio a questi livelli con una gestione familiare sta diventando veramente difficile, considerate le responsabilità a cui siamo messi di fronte. Penso però che l’imprenditoria italiana sia un valore importante: sarebbe bello poter mettere il know-how del calcio italiano a disposizione di chi ha le potenzialità economiche per costruire qualcosa. Però ci deve essere un senso alla base: abbiamo visto proprietà straniere che investono denaro e non ottengono risultati. Se chi ha le competenze ci mette anche il criterio di gestione, magari viene fuori qualcosa di buono. E al tempo stesso non si perde per strada la storia e la filosofia di un club.

Ⓤ: A proposito di filosofia: nel vostro caso vuol dire soprattutto attenzione ai giovani.
Facciamo con quello che abbiamo. Nel nostro caso vuol dire partire dai giovani, tirarli su, portarli a un livello che gli permetta di affermarsi anche in palcoscenici più importanti. Contenere i costi vuol dire anche acquistare una scommessa, oppure un giocatore che viene da un infortunio o da una retrocessione, un profilo che ha voglia di riscatto e che vede nell’Empoli un’opportunità, una tappa di crescita importante della sua carriera.
Ⓤ: E poi in questo aiuta molto un settore giovanile che ha sempre sfornato grande talento. Solo negli ultimi anni, sono usciti dal vivaio Fazzini, Baldanzi, Ricci.
Puntiamo molto sul nostro territorio. In Toscana abbiamo dei competitor importanti come la Fiorentina o il Pisa, che hanno bacini nettamente più grandi. Oggi poi la competizione è maggiore, magari non arriviamo più per primi come in passato, ma ci sta, fa parte del mercato. Abbiamo osservatori sia per la prima squadra sia per il settore giovanile, e molto si basa sulla cooperazione con le società affiliate. Prima l’affiliazione era gratuita, ma non dava un livello al lavoro: magari c’erano situazioni non consone con la nostra filosofia. Abbiamo creato tre gradi di affiliazione, con costi diversi e “servizi” diversi: su questo si basa quante sono le visite dei nostri tecnici nel corso dell’anno, che formano, verificano il lavoro. Questo è quello che dà valore al rapporto, è la prima forma di scouting importante per noi. Perché quando hai a che fare con certi bacini è impossibile che poi non venga fuori niente.
Ⓤ: Una forte suggestione è che negli ultimi anni l’Empoli ha scelto allenatori abili nell’esaltare il talento: Sarri, Giampaolo, Andreazzoli, Dionisi, D’Aversa.
In certi momenti siamo stati bravi a scegliere, tanti allenatori hanno fatto bene con noi. Succedeva anche quando ero piccola io: Luciano Spalletti ha iniziato ad allenare proprio con noi. A volte ci sarebbe piaciuto avere un allenatore alla Ferguson, sarebbe bello un giorno poter individuare quel genere di figura anche per l’Empoli, è affascinante. Però è altrettanto affascinante l’idea di poter essere un’opportunità anche per allenatori in fase di crescita. E quali esempi migliori di Spalletti e Sarri.
Ⓤ: Che ricordi hai di loro?
Ho sempre creato dei bellissimi rapporti con tutti gli allenatori. Questo perché ho sempre avuto grande rispetto dei ruoli all’interno di una società. Spalletti è una persona di famiglia, è stato testimone di nozze dei miei genitori, è padrino del mio battesimo. Tuttora abbiamo un rapporto stupendo. Quando c’era Sarri, io lavoravo nel marketing, e lui il marketing non lo vedeva di buon occhio. È stato avvincente averci a che fare in quel periodo, con tutte quelle diatribe. Le panchine lontano dal campo, per esempio: per lui erano tre punti in meno alla fine dell’anno. Oppure le maglie, voleva che indossassimo in Serie A le stesse con cui avevamo vinto la B. Era divertente. Certi momenti li ricordo veramente con piacere.
Ⓤ: Unica donna con un ruolo apicale in una società di Serie A: pensi di rappresentare un modello?
In realtà mai. Mi sento proprio il contrario. Sicuramente odio titoli, etichette: siamo persone prima di tutto. Ed esiste la meritocrazia. Nel mio caso è evidente che sia stato facile avere un’opportunità, visto che mio padre ha due aziende. Ma poi quell’opportunità bisogna anche saperla sfruttare. Ho studiato marketing, ho dovuto lavorarci, me la sono conquistata. Dipende tutto da noi: se vogliamo qualcosa, la otteniamo.
Ⓤ: E qualche volta ti sei sentita osteggiata, o trattata in maniera diversa, dal mondo del calcio in quanto donna?
No. Poi è chiaro: c’è l’educazione e la maleducazione, ma in tutti gli ambiti. E anche se fosse, l’importante è dare il giusto peso alle cose, dimostrare agli altri quello che si vale e continuare ad andare dritti per la propria strada. Io ragiono così e cerco sempre di essere in movimento, di stare al passo per le cose, perché non mi reputo arrivata. Poi culturalmente c’è un problema, certo, ma credo che se si comincia a smettere di parlarne, normalizziamo tutto. Come, per esempio, quando si parla di arbitri donne: ok, ma non facciamola passare per una cosa eccezionale.
Ⓤ: Un’immagine dell’ultima salvezza, conquistata all’ultimissimo minuto?
Mia figlia, Blu Marisa. Che ha dato un sapore tutto diverso. La mia gravidanza non ha avuto particolari problemi, perciò sono riuscita fino all’ultimo a fare tutto, anche le trasferte fino a una settimana prima del parto. E forse il fatto che Blu ha fatto nove mesi così l’ha abituata allo stadio: quando l’ho portata la prima volta, sembrava fosse al parco giochi, in un posto familiare. Nemmeno i petardi la spaventano.
Ⓤ: E invece la prima immagine di te allo stadio?
Addormentata in braccio a mio padre. Avevo quattro anni, i miei si erano separati da poco. Quindi dovevo trascorrere un weekend con mio padre e uno con mia madre. E per stare il più possibile con mio padre chiaramente dovevo andare allo stadio. E all’inizio il calcio non mi aveva preso così tanto.
Ⓤ: Quando ha cominciato ad appassionarti?
Quando ho preso a viverlo sempre di più. Anche perché ho un legame fortissimo con mio padre. La necessità di starci insieme mi ha portata a seguire una partita dopo l’altra. E col tempo il mondo del calcio è diventato anche parte di me stessa e della mia vita. Per noi la partita non finisce il pomeriggio, continua a casa. Se è andata storta ci rimuginiamo fino al lunedì, al martedì. Il calcio è causa di notti insonni. Totalmente. Anche perché ci sono dinamiche aziendali: hai dei dipendenti, i dipendenti hanno delle famiglie, e tu hai un senso di responsabilità nei loro confronti. Vuoi garantirgli una programmazione ma non puoi farla più di tanto: fino all’ultima di campionato non sappiamo se l’Empoli sarà salvo o no. E quindi la programmazione è sempre duplice: Serie A e Serie B. È l’unica strada.
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Ⓤ: Non manchi mai di sottolineare il forte rapporto con tuo padre.
In fondo mi ha sempre trattata molto da adulta. Anche per il mio vissuto: avevo quattro anni quando i miei genitori si sono separati, quindi gli argomenti in famiglia non erano quelli tipici per una bambina. Cose tipo che scuola scegliere non sono mai state argomenti di discussione. Le ho decise da sola. La separazione mi ha fatto soffrire tantissimo, ma rivivrei la mia vita per filo e per segno.
Ⓤ: Come mai?
Perché, altrimenti, non sarei quella che sono oggi. Magari da ragazzina ho perso delle cose, ma non rinnego niente. Non sono mai stata una da serata, le mie presenze in discoteca si contano sulle dita di una mano. Ho fatto le mie esperienze: andare all’estero, vivere in Inghilterra… Volevo tornare a Empoli più di tutto ma dovevo fare prima il mio percorso.
Ⓤ: Tornando al calcio: Empoli è casa per te ma anche per chi fa parte del club.
È una cosa di cui vado molto orgogliosa. Se vieni a Monteboro, il nostro centro sportivo, è facilissimo incontrare il presidente. Lo stesso vale per i ragazzi che vivono nel convitto, che è proprio accanto alla sede. I genitori che li accompagnano hanno da subito un contatto diretto con la proprietà, e questo rende tutto più umano, più credibile.
Ⓤ: E nel tempo l’Empoli è diventato un punto di riferimento per la comunità. Merito di iniziative come la Onlus “Empoli for Charity”.
Anche questo è stato determinato molto dalla vicinanza della proprietà alla città. Sono quasi dieci anni dalla nascita della Onlus, un modo per mettere a disposizione del tessuto sociale una forma di tutela verso i bisognosi della nostra comunità. È stato un modo anche di “istituzionalizzare” una forma di aiuto, perché il contatto ravvicinato con i calciatori faceva sì che ci fossero molte persone che chiedevano aiuto, ma senza sapere poi dove finivano quelle donazioni. Con la Onlus invece riusciamo a garantire una tutela delle realtà più bisognose, diamo una mano concreta.
Ⓤ: Altro tema cittadino: il nuovo stadio.
Il calcio italiano ha perso anche perché le strutture italiane lasciano un po’ a desiderare. Una struttura nuova, oltre a dare valore alla città di Empoli, dà valore a tutto il prodotto e a tutto quello che ruota attorno. Sarà completato in due anni e mezzo, massimo tre, dalla posa della prima pietra. I tempi sono un po’ più lunghi perché nel frattempo continueremo a giocarci. Parallelamente, stiamo portando avanti una riqualificazione e un ampliamento del nostro centro sportivo. È una cosa su cui mi sono battuta molto, perché il centro sportivo è di proprietà del club, tra i primi in Italia, e vogliamo garantire alla prima squadra una struttura importante.