Le decisioni degli arbitri e del Var sono sempre più lontane dal calcio che conosciamo?

I direttori di gara sono molto criticati, e così anche la tecnologia. Perché ha cambiato il gioco, ma non ha cancellato le polemiche.

Il claim “Questo non è calcio” è potente già di per sé, ma è vero pure che un appello così accorato – per intensità,  partecipazione e preoccupazione – come quello degli ultimi giorni forse non si era mai visto: ci sono i media, i calciatori e soprattutto gli allenatori da un parte, dall’altra ci sono gli arbitri; nel mezzo, tante domande a cui si cerca di dare una risposta. Al di là delle accuse e dei sospetti secondo cui l’introduzione della tecnologia abbia potuto rovinare lo spirito del gioco, letti e sentiti in diverse occasioni in questi giorni di polemiche, l’aspetto che più colpisce di questa ondata di proteste è l’assoluta esigenza di chiarezza nelle varie situazioni, regolamentari e di gioco. Insomma, c’è bisogno di oggettività. Anche se siamo in un territorio, quello delle decisioni arbitrali, che per definizione stessa presuppone un giudizio. La presenza di un VAR, ovvero di un Video Assistant Referee, quasi legittima questa richiesta di oggettività nei pensieri degli addetti ai lavori. Ciò di cui ci si dimentica, però, che davanti al video c’è una persona, un altro arbitro. E allora la situazione cambia.

La circostanza più dibattuta è quella relativa al fallo di mano. E allora vale la pena partire dal regolamento. Secondo il testo dell’AIA è punibile un calciatore che «tocca deliberatamente il pallone con le proprie mani/braccia, per esempio, muovendo mani o braccia verso il pallone,  oppure tocca il pallone con le proprie mani/braccia quando queste sono posizionate in modo innaturale e aumentano lo spazio occupato dal corpo». Un giocatore aumenta lo spazio occupato dal proprio corpo in modo innaturale «quando la posizione delle sue mani/braccia non è conseguenza del movimento del corpo per quella specifica situazione, oppure non è giustificabile da tale movimento».

La seconda parte della regola è quella incriminata, dato che la posizione di naturalità o meno del movimento umano può essere differente a seconda della postura e dell’orientamento del corpo. «Qualche anno fa il regolamento era più chiaro», ha sottolineato Esteban Cambiasso ad After Party Best of Europe su Sky Sport. «Prima la discriminante era legata a un braccio più o meno largo che incrementava il volume del calciatore. Ora chi mi dice che un difensore che estende leggermente il braccio per correre meglio sta assumendo una posizione innaturale?». Una questione che si è posta specialmente lo scorso lunedì sera, nel posticipo di campionato tra Inter e Fiorentina. Al 41’ Gosens colpisce di testa in area avversaria, il pallone sbatte sul braccio di Darmian che sta recuperando all’indietro.

Fallo di mano?

Dopo richiamo al Var e On Field Review, La Penna decide di concedere calcio di rigore, punendo il fatto che la posizione del braccio dell’interista non fosse in linea con il movimento. Va sottolineato, però, che se non ci fosse stato contatto con il laterale nerazzurro la palla sarebbe finita sul fondo e che Darmian non avesse pieno campo visivo, considerando che nel salto stava cercando di prendere posizione su Kean. Su Sky Sport Insider, Lorenzo Fontani ha sottolineato come in casi in cui si fatichi a capire se la posizione del braccio è naturale o meno, ci si può affidare a dei parametri oggettivi: l’apertura alare, l’atteggiamento di opposizione a una conclusione o il pallone inaspettato. Il confine, però, è molto sottile. Per fare un esempio: al 96esimo di Bologna-Roma è stato punito un intervento di mano di Lucumí in una normale postura di marcatura sull’avversario.

Difficile quindi trovare un equilibrio. Specie se, al contrario, un tocco di mano o braccio che favorisce o provoca un gol viene fischiato a prescindere. Nel regolamento, infatti, si legge che i direttore di gara deve mettere mano al fischietto quando «si segna direttamente con le proprie mani/braccia, anche se in modo accidentale o immediatamente dopo che il pallone ha toccato le mani/braccia, anche se in modo accidentale». Insomma, esiste un’evidente discriminazione tra fase di attacco e difesa che risulta complicata da digerire.

In un contesto disordinato, quindi, da parte di diversi analisti si è levata la proposta di modificare il protocollo e di collaborare nella stesura con ex calciatori che, avendo giocato per anni, conoscono meglio la biomeccanica del corpo. «Perché non possiamo coinvolgere ex attaccanti e difensori?», ha chiesto Fabio Capello nel Champions League Show di Sky Sport. Un’idea sviluppatasi analizzando il rigore concesso al Club Brugge nel recupero contro l’Atalanta per via di un leggerissimo tocco di braccio di Hien su Nilsson. Nel tentativo di proteggere il pallone, infatti, il centrale svedese allarga il braccio e si appoggia sull’avversario, che accentua moltissimo la caduta mettendosi le mani sul viso. Penalty confermato anche dopo silent check. Una scelta arbitrale decisiva per il risultato, dato che lo stesso Nilsson ha segnato dagli undici metri regalando la vittoria ai suoi per 2-1. Le prime reazioni sono state di sdegno. «Ormai quando alzi il braccia e tocchi la faccia, niente gli arbitri sono una cosa…» si è sfogato Giuseppe Bergomi in telecronaca. «Questo non è mai rigore, non è fallo nemmeno a centrocampo. Io mi arrendo, basta, non è più calcio» ha continuato la leggenda dell’Inter e talent Sky, aggiungendo che «in campo avrebbe potuto perdere la testa anche io».

A condannare la Dea alla sconfitta è stata un’eccessiva interpretazione del concetto di “negligenza” ovvero quando «il calciatore mostra una mancanza di attenzione o considerazione nell’effettuare un contrasto o agisce senza precauzione». Ma qual è il motivo per cui il Var non ha richiamato l’attenzione dell’arbitro Umut Meler e gli ha consigliato un On Field Review? Probabilmente perché, essendoci stato un contatto, al monitor non hanno riscontrato gli estremi per il chiaro ed evidente errore. Ed è stata proprio la forza dell’impatto, minima, il centro delle polemiche nel dopogara. «Sentendo tecnici e giocatori, tutti hanno un’idea dei falli completamente diversa», ha detto l’allenatore Gian Piero Gasperini. «Il dramma sono i contatti: ora tutti si tuffano per rubacchiare e conquistare un’ammonizione o un rigore. Il calcio sta andando in una direzione che non c’entra nulla col gioco».

Calcio di rigore?

È pur vero che la tecnologia ha migliorato il gioco. La creazione della GLT e del fuorigioco semiautomatico ha permesso di raggiungere dei concreti criteri di oggettività. Lo stesso non accade con il Var, al centro di polemiche non solo su come giudica gli episodi dubbi ma anche su quando deve intervenire o meno. L’esempio perfetto è il cross di Bastoni da cui è nato il calcio d’angolo che ha portato al gol dell’Inter contro la Fiorentina. Assist di Thuram, il centrale va in scivolata e rimette in mezzo all’area una palla deviata in corner. Peccato che il passaggio del francese fosse lungo e il pallone avesse superato la linea di fondo. Per regolamento nessuna chance di silent check e angolo assegnato. Conseguenza: gol dell’1-0 di Lautaro Martínez (con ultimo tocco di Pongracic).

Allenatori e giocatori sono sempre più destabilizzati da quanto accade in sala Var: «Spesso le decisioni sono incomprensibili», confessa a Undici Emanuele Giaccherini, due scudetti con la Juve e ora talent Dazn. «Siamo fuori da ogni logica, va cambiato il regolamento. Come è possibile che si possa verificare solo un silent check a Bruges, dove è stato inventato un rigore?». Uno smarrimento che alimenta l’esigenza di essere coinvolti nella composizione delle regole: «Manca conoscenza del gioco», aggiunge Alessandro Budel, ex tra le altre di Parma, Cagliari e Brescia. «Il contatto fisico è una parte naturale di questo sport, toglierlo significa rivoluzionare il calcio. Se allargo le braccia per la difesa del pallone e un avversario mi viene addosso, non posso essere punito. Devo essere sanzionato, per esempio, quando volontariamente uso i gomiti  per far male».

Anche per Massimo Gobbi il protocollo deve essere aggiornato, allargando lo spazio di manovra del Var nelle situazioni di gioco oggettive, la classica palla che varca o meno la linea di fondo. «Senza dover ogni volta controllare tutti i tocchi che causano un corner», spiega l’ex Parma e Fiorentina, «altrimenti si perderebbe troppo tempo». Ci vuole anche un lavoro culturale: «La chiave sta nell’accettare la discrezionalità da parte di tutti quelli in campo», dice Gobbi. Che si dice favorevole al Var a chiamata, se regolarizzato. 

«I direttori di gara potrebbero parlare con i calciatori per farsi spiegare perché le mani si muovono in una determinata maniera quando cadono, saltano o corrono», rivela  Simone Tiribocchi, 148 presenze e 39 gol in Serie A tra Torino, Chievo Verona, Lecce e Atalanta. «Anzi, ci vorrebbe un ex calciatore in cabina Var» continua il talent di Mediaset, chiarendo come «il Var abbia tolto doveri agli arbitri, perché sanno che possono essere corretti».

Su questo tema l’AIA è sempre stata molto chiara. «Noi vogliamo arbitri che decidano», ha dichiarato a Dazn Gianluca Rocchi, designatore di Serie A e B. Il Var, infatti, è stato pensato come strumento di supporto e di verifica, non come scarico di responsabilità. La sua introduzione, nella stagione 2017/18, rispondeva a criteri ben precisi. Prima di tutto un’applicazione puntuale solo nei casi di errori evidenti e determinanti per il punteggio finale. L’obiettivo era fissato, mantenere la centralità dell’arbitro come protagonista del gioco. Queste norme, però, hanno portato a non esprimersi su tantissimi episodi, deludendo l’opinione pubblica calcistica che aspettava il Var come il tasto stop per tutte le polemiche. Sono quindi cominciate le richieste di un maggior intervento al monitor, reputandolo un porto sicuro in cui rifugiarsi ogni volta che ci fosse anche il minimo dubbio. Gli arbitri, pur cercando di conservare l’essenzialità del proprio ruolo, si sono inevitabilmente adeguati, ricorrendo spesso all’aiuto esterno. La conseguenza più naturale è che forse abbiano perso un po’ la capacità di seguire un gioco che si fa sempre più rapido.

ìLo si nota proprio nella gestione della partita, nell’inclinazione a controllarla il più possibile. «Non è solo una questione di regole, ma anche di applicazione», spiega Lorenzo Minotti. «Ci vorrebbe maggiore elasticità, soprattutto nelle situazioni in cui si può andare al Var, anche se non è scritto nel protocollo», prosegue l’ex capitano del Parma, concentrandosi specialmente sulla crescita tecnica dei fischietti. «Per allenare meglio gli arbitri si potrebbero ammettere gli ex calciatori ai raduni, in modo da unificare tutti insieme gli interventi da sanzionare», aggiunge ancora Gobbi. La seconda voce di Sky Sport è uno dei più grandi fan della tecnologia: «L’unica espulsione che ho ricevuto in carriera», ricorda «è arrivata nel match più importante che ho giocato: il ritorno degli ottavi di finale di Champions League contro il Bayern Monaco, deciso da un gol in netto fuorigioco di Klose. La mancanza di un sistema che potesse determinare l’offside mi è costato un quarto di finale». Sa quindi di cosa parla Gobbi, eppure anche lui insiste sulla necessità di elevare il livello della classe arbitrale, dato che «sembra difficile inserire un ex  giocatore in sala Var». 

Anche perché oggi, nel dubbio, si tira fuori un cartellino. Pure per normali falli di gioco. È capitato pure nel playoff d’andata di Europa League. A farne le spese è stata la Roma, punita forse un po’ troppo severamente in alcune situazioni, come il giallo a Koné. La conduzione di gara ha fatto infuriare nel dopo gara Claudio Ranieri che si è rivolto direttamente a Roberto Rosetti, designatore arbitrale UEFA. «Com’è possibile che una persona integerrima come lei mandi a Oporto, su un campo molto caldo, un arbitro con cui in 22 partite la squadra ospite ha sempre perso, pareggiando al massimo nove volte?» ha detto il tecnico giallorosso a Sky Sport. «Prometteva e dava cartellini dall’inizio, secondo me aspettava succedesse qualcosa in area del Porto per dare un rigore e fargli vincere la partita. Lui è convinto di aver fatto bene perché è abituato a comportarsi così, ma in una partita simile non ci possono essere così tanti ammoniti. Ha irretito i giocatori, che si sono giustamente innervositi, ho pregato loro di non protestare. Alla fine del match li ho allontanati perché l’arbitro non meritava il loro saluto, su un campo internazionale non può avvenire una cosa del genere» ha detto l’allenatore della Roma.

Non sono stati commessi errori clamorosi, per questo lo sfogo è sembrato sopra le righe, tanto che la Uefa ha telefonato alla Roma per chiedere spiegazioni. Ranieri potrebbe quindi essere messo sotto indagine dalla Confederazione europea, un atto quasi automatico dopo certe dichiarazioni. Difficile ci possa essere una squalifica, più probabile una multa. Eppure le parole di Ranieri, uno che raramente si espone in modo così netto, spingono a un paio di riflessioni. La prima è la calante fiducia di allenatori e giocatori nella comprensione e nella lettura delle situazioni da parte dei direttori di gara, accentuata da un protocollo che lascerebbe troppo spazio di manovra. La seconda è legata alla comunicazione. È come se ci fosse ancora una distanza tra come intendano il calcio gli uni e come lo intendano gli altri.

Se è lodevole che negli ultimi anni, soprattutto in Italia, la classe arbitrale si sia aperta in televisione e negli incontri con i tesserati alla spiegazione e al dialogo sulle dinamiche di gioco, la sensazione è che ci sia una difficoltà ad ammettere l’errore, a meno che non sia lampante. Questo ha fatto sì che si arroccassero le opinioni, rendendo complicato trovare una quadra. La prima soluzione, quella più facilmente attuabile, potrebbe partire da qui. Giocatori e allenatori più consci del protocollo, arbitri meno rigidi nel metterlo in pratica. Le modifiche regolamentari, infatti, devono necessariamente provenire dall’Ifab, l’International Football Association Board. E almeno per il momento non ne sono previste.