Filippo Tortu, il mestiere della velocità

Intervista allo sprinter italiano, oro a Tokyo nella 4x100 maschile: la maturità, la consapevolezza e l'incredibile livello raggiunto dall'atletica italiana.

Filippo Tortu ha la faccia di chi vuole prendersi tutto. Lo avevamo intuito, certo. Arrabbiature per finali mancate. Persino espressioni corrucciate per argenti europei. Ma anche gioie incontenibili per i trionfi. Come le mani sulla testa dopo la vittoria al fotofinish nella 4×100 a Tokyo, e quelle lacrime una volta realizzato quanto compiuto. Filippo Tortu vuole prendersi tutto perché sa che può prendersi tutto. Lo sa almeno da quando, nel 2018, ha abbattuto il muro dei dieci secondi nei cento metri, primo italiano a riuscirci. Sei anni dopo, l’atletica italiana ha un’altra espressione: un’espressione vincente, di affermazione. Tortu c’è stato, c’è tuttora, pienamente, in questa sbornia di successo di un intero movimento. Ma non si può fare a meno di pensare che, senza quel risultato nel 2018, le cose avrebbero potuto andare diversamente. Tortu ha fatto capire che vincere, abbattere i limiti, era possibile. Che prendersi il mondo era possibile.

A 26 anni i Giochi di Parigi saranno il suo appuntamento con quel mondo. E con la storia. Non correrà i 100, come a Tokyo, ma proverà a prendersi tutto sui 200. E poi, ovviamente, con la staffetta 4×100, una gara dove i velocisti italiani arrivano da campioni in carica. «Quello che cambierà, per me, sarà la mia gara: i 200, e non più i 100», dice Tortu. «Ma a livello di sensazioni pre Olimpiadi non ci sono grandi differenze: per me ogni gara fa storia a sé, con i suoi obiettivi, le sue difficoltà. Sicuramente vorrò vivere appieno l’esperienza olimpica, visto che a Tokyo c’erano particolari restrizioni per la pandemia. Questa volta, invece, sarà sicuramente tutto molto più bello».

Ⓤ: Da Tokyo ad oggi, in cosa ti senti più cambiato?

Mi sento più maturo, atleticamente. Lo capisco da come riesco oggi a gestire le vittorie e anche le sconfitte. Da come do il giusto peso alle gare. E anche dagli allenamenti: non che prima non mi allenassi in maniera giusta, da professionista, ma reputavo gli allenamenti un semplice fine per arrivare pronto alle gare. Invece adesso ci sono delle volte in cui sono più orgoglioso di come mi alleno rispetto a come può andare una gara. In questo senso credo di aver trovato un equilibrio che prima non avevo e che mi sta aiutando molto.

Ⓤ: Cos’altro ti aiuta nel raggiungere i tuoi obiettivi?

Devi essere sempre convinto di poter battere chiunque, anche quelli più forti di te. Se sei dietro qualcuno in pista, il pensiero è sempre quello di poterli raggiungerli e superarli. Ci dev’essere sempre, costantemente, quest’idea, di superare tutti. Ci sono due metà nella testa di un atleta: una razionale, che ti fa pensare che ci sono avversari più forti, che ti fa accettare un secondo posto in certe situazioni, e una irrazionale, che invece ti mette al di sopra di tutti, che ti spinge a vincere a tutti i costi. Quando sei in pista quella parte irrazionale prende il sopravvento, e solo dopo la gara analizzi le cose in maniera lucida, razionale appunto.

Ⓤ: Prima della gara, invece, è difficile gestire a livello mentale un momento decisivo come può essere una finale?

Per me quel momento è bellissimo. Le gare che mi danno più adrenalina sono quelle per cui ti alleni ogni giorno. La tensione è qualcosa che mi piace provare, prima di queste gare: l’importante che sia una tensione che ti aiuti e non ti danneggi. Se poi ti sei allenato bene, se hai fatto tutto quello che dovevi, se sei certo di aver dato il massimo, sei pronto, ed è un pensiero che ti tranquillizza. 

Ⓤ: E l’attenzione che c’è su di te durante una gara, non ti condiziona in qualche modo?

No, quello non mi influenza assolutamente. Che sia uno stadio pieno o vuoto non mi cambia. L’attenzione la vedo in positivo perché penso che c’è gente che sta facendo il tifo per me, ma poi sono concentrato su quello che devo fare. Tutto quello che c’è all’esterno non esiste.

Ⓤ: L’oro di Tokyo nella 4×100 è l’emozione più grande della tua carriera finora?

Penso proprio di sì. Ho scoperto solo un paio d’ore dopo che avevamo vinto di un centesimo. Una volta sul traguardo, da primi, non mi interessava nient’altro. E poi la mia sensazione era quella di avere più vantaggio sugli avversari: nella mia testa, già da metà rettilineo, mi sentivo molto più avanti. Poi vincere di un centesimo o di un secondo non è importante, l’importante è vincere.

Ⓤ: A proposito: questa staffetta è diventata un chiodo fisso per gli appassionati italiani. Com’è vissuta da dentro?

Io la sento questa appartenenza alla squadra, alla staffetta. Una gara del genere la corri davvero in quattro persone. In un certo senso è complicato fare squadra, perché i tuoi compagni sono anche i tuoi primi avversari, ma lo spirito di squadra tra di noi è nato in maniera quasi naturale, visto che prima di tutto siamo amici e passiamo molto tempo insieme. Il fatto di essere così affiatati ci ha aiutato anche a vedere in maniera diversa questa gara, perché da noi atleti era ritenuta di serie B. Invece adesso, anche perché teniamo particolarmente ai nostri compagni, lavoriamo molto per la staffetta, è diventato un appuntamento importante al pari delle nostre gare individuali. 

Ⓤ: Qual è la differenza principale tra lo scendere in pista da solo e farlo in staffetta?

Direi gli sbagli. Se lo fai in una gara individuale, è qualcosa che si riesce a digerire. Meno se ti affidi ad altri e sbaglia qualcun altro. Come anche se dovessi sbagliare io, quell’errore ricadrebbe su tutta la squadra. A livello di vittorie, invece, trovo delle sensazioni molto simili.

Ⓤ: Il concetto di squadra ci fa ricordare anche che tutta l’atletica leggera italiana è diventata un punto di riferimento quando si parla di movimento vincente. Com’è successo che, quasi improvvisamente, l’atletica italiana si sia scoperta così forte?

Non penso sia successo improvvisamente. Già da diversi anni ci sono segnali positivi. Tokyo probabilmente ha rappresentato la prima grande impresa, ma ha anche un po’ nascosto questi segnali: con cinque medaglie d’oro vinte, l’attenzione ovviamente si è riversata tutta su questo. Ma ci sono stati tanti altri risultati straordinari, tante finali olimpiche. Anche senza medaglie, sarebbe stato un momento enorme per tutti. Poi penso che quando vedi i tuoi compagni di squadra vincere, i tuoi amici, sei felice, ma al tempo stesso vorresti essere al loro posto. E questo ti dà uno stimolo, un motivo in più per dare ancora di più in allenamento.

Ⓤ: Al tempo stesso tu hai rappresentato uno stimolo per gli altri, con il primato italiano sui 100 nel 2018, e poi, negli anni successivi, oltre all’oro olimpico, quattro podi tra Mondiali ed Europei. Pensi di essere un ispiratore nello sport, e in particolare nei confronti di chi pratica atletica? 

Non posso dirlo io, però mi fa piacere se me lo dicono. Anche tanti compagni di Nazionale mi hanno confessato che, quando sono andato sotto i dieci secondi nei cento metri, o quando sono arrivato alla finale dei Mondiali, ho rappresentato per loro uno stimolo. Sicuramente la cosa bella è che dieci anni fa l’atletica italiana si immedesimava in due o tre atleti, oggi nell’immaginario comune ce ne sono venti, c’è una squadra intera. Significa che il movimento è cresciuto tantissimo. E poi si tratta di una generazione di atleti molto giovane, quindi spero che questa epoca di successi durerà a lungo. È una cosa che mi inorgoglisce, sapere di far parte di qualcosa di bello, che sta dando lustro all’Italia.

Ⓤ: E questo momento d’oro vi ha anche resi noti, dei personaggi conosciuti. Tu come gestisci questo aspetto, questa “fama”?

Sicuramente l’ho riscontrato. Dopo Tokyo l’ho percepito tanto, e anche dopo gli ultimi Europei di Roma. C’è stato un mese, dopo l’oro olimpico, in cui se uscivo di casa, ovunque andassi, mi riconoscevano… A ogni modo sono cose che non cambiano il mio punto di vista su quello che faccio: il mio sport mi piace un sacco, e lo farei a prescindere dall’essere popolare. Poi fa piacere sapere che c’è tanta gente che fa il tifo per me, che mi vuole bene, che mi fa arrivare il suo supporto, anche quando i risultati non sono quelli sperati. E poi c’è qualche vantaggio, io sono un super appassionato di sport, tanto che durante le mie vacanze vado in giro per il mondo a vedere eventi sportivi, perciò mi fa piacere quando mi invitano ad assistere a partite di calcio o di basket.

Ⓤ: La tecnologia, l’equipaggiamento, fanno la differenza nell’atletica? 

Sì, assolutamente. Si fanno costantemente passi in avanti dal punto di vista tecnologico, e questo per noi velocisti significa centesimi, decimi di secondo preziosi. Oppure ti permette di fare allenamenti a maggior intensità con uno sforzo minore rispetto al passato. Per questo anche il supporto di Nike è fondamentale, la sua innovazione per noi atleti è un aiuto indispensabile.

Foto di Dave Masotti
Moda di Anna Carraro e Fabiana Guigli