Il fascino del numero 12, oltre il portiere di riserva

Un estratto del libro Dodici. Un numero che mette d'accordo, di Marco Malvaldi, edito da Il Mulino.

Mordecai Richler, l’autore de La versione di Barney, sosteneva che gli scrittori scrivono perché non sono abbastanza bravi a giocare a pallone: per quello che mi riguarda, devo ammettere che è molto vicino al vero. Anche se il mio sport preferito, quello nel quale mi mantengo scarso grazie ad allenamenti regolari, è il tennistavolo, quando ero piccolo ho giocato a calcio. Quanto al ruolo, io mancino naturale mi immaginavo ala sinistra, con il numero undici sulle spalle, ma bastarono pochi allenamenti e un paio di partite per convincere i miei allenatori che andavo spostato di ruolo e di maglia. Un cambiamento piccolo, a livello numerico, ma sostanziale: invece di undici, dodici. Da ala sinistra titolare, a portiere di riserva. Quello che si siede in panchina all’inizio e ci sta inesorabilmente fino alla fine, e che per giocare deve augurare un malanno o una storta al portiere titolare.

Ecco, parlando da nerd quell’assegnazione non mi convinceva pienamente: ero comunque il primo dei panchinari, in senso numerico, ma quello che meno di tutti poteva aspettarsi di subentrare a partita in corso. Chissà perché, mi chiedevo, il portiere di riserva ha il 12. In realtà, il numero 12 sulle spalle dei calciatori ha vagato parecchio prima di assestarsi in un punto prestabilito, il secondo portiere appunto, che in realtà era molto più localizzato e precario di quanto immaginassi.

I numeri sulle maglie fecero la loro comparsa nel 1928: in quella data l’Arsenal decise di numerare i propri giocatori per distinguerli sul campo, e le squadre ospiti decisero di adeguarsi. Fu così che le prime partite tra squadre numerate videro cifre che andavano dall’1 al 22: dall’1 all’11 per la squadra di casa, dal 12 al 22 per quella ospite. Ci volle una dozzina di anni perché, nel 1940, i numeri vennero finalmente posti uguali. Dall’1 all’11 per tutte e due le squadre, solo su due maglie diverse. Poi la numerazione prese strade più spettacolari, più o meno ordinate; ma il 12 come pertinenza del portiere di riserva, imparai durante i Mondiali del 1982, era solo una mia pia illusione. Avevo già notato che questa cosa era solo ed esclusivamente italiana: l’estremo difensore in panchina nelle altre squadre era il 16, non il 12. Più logico, da un certo punto di vista.

Meno logico quello che vidi durante lo svolgimento del torneo, quando mi accorsi – per la prima volta in vita mia – di un giocatore che aveva il numero 1 sulle spalle, ma non era un portiere. Durante i Mondiali del 1982, infatti, la Nazionale argentina aveva scelto di dare i numeri non in funzione del ruolo, ma in ordine alfabetico. Con un’unica eccezione: proprio quella del 12 che, a rigor di alfabeto, sarebbe dovuto toccare a tale Diego Armando Maradona. Ma puoi far giocare Maradona con una maglia diversa dal 10? Ganzissimo, pensai, nella mia fantasia di bambino delle elementari per cui ogni cosa insolita era migliore a prescindere. Perché non lo fa anche l’Italia, babbo? Veramente, mi disse mio padre, siamo stati i primi a farlo. Solo che non se n’è accorto nessuno.

Venni così a sapere che i primi Mondiali in cui una squadra si presentò con una numerazione in ordine alfabetico erano stati quelli di Inghilterra ’66, dove non una ma quattro squadre (Italia, Francia, Svizzera e Cile) avevano scelto questo approccio. Il primo giocatore di movimento a crossare e dribblare da numero 1 fu infatti il cileno Pedro Araya. E gli altri tre? Nulla da fare, per motivi diversi: Francia e Svizzera avevano deciso che i portieri avessero numeri prestabiliti. L’Italia, invece, aveva deciso di rispettare l’ordine in tutto e per tutto, ma per l’appunto non se ne accorse nessuno per un puro caso: il primo, in ordine alfabetico, era infatti il portiere titolare, Enrico Albertosi. E gli altri due estremi difensori, Roberto Anzolin con il numero 2 e l’introvabile Pierluigi Pizzaballa con il 18, non ebbero mai occasione di togliersi la tuta e far vedere la loro insolita punzonatura: erano rimasti sempre in panchina.

Poi sono arrivati i Mondiali americani, con il nome e il numero sulla maglia come negli sport a stelle e strisce, e a quel punto in breve tempo ogni giocatore iniziò a scegliersi il suo numero preferito, fino a farne un simbolo personale. Ma a me la maglia con il numero dodici sulle spalle, quella del portiere di riserva, è rimasta un po’ addosso: da scrittore di intrattenimento, da giallista, rimango uno spettatore privilegiato, vicino agli eventi abbastanza da sentirmene partecipe, ma non così coinvolto da esserne responsabile. Altre cose mi sono rimaste, di quei pomeriggi di bambino: la naturale simpatia per il portiere di riserva, per esempio.

Un estratto del libro Dodici. Un numero che mette d’accordo, di Marco Malvaldi, edito da Il Mulino