La maturità di Nicolò Martinenghi

Intervista a uno dei migliori nuotatori italiani, che sta vivendo l'avvicinamento alla sua seconda Olimpiade in maniera molto diversa rispetto a tre anni fa.

Nicolò Martinenghi e Thomas Ceccon sono come il giorno e la notte. È un giovedì di metà maggio, la bella stagione quest’anno si fa attendere un po’ più del solito e i due nuotatori italiani, a circa due mesi dall’Olimpiade di Parigi 2024, si sono svegliati di buon mattino e, con già un allenamento nelle braccia e nelle gambe, si trovano proprio nella capitale francese per una giornata di interviste organizzata da arena, il loro sponsor tecnico. Siamo su un’elegante chiatta ormeggiata sulle rive della Senna, sotto la Tour Eiffel. Martinenghi chiacchiera, scherza con i giornalisti, si concede anche più del tempo previsto; Ceccon non ama questo tipo di eventi, è tenebroso, riempie i momenti morti giocando distrattamente con il suo cellulare. Questi comportamenti non indicano soltanto due caratteri diversi, ma anche due modi differenti di avvicinarsi ai Giochi che cominceranno tra poche settimane: se Ceccon parla spesso di «ossessione» per la medaglia d’oro, Martinenghi invece sembra più rilassato, sereno, anche più risolto, se vogliamo.

«C’è sempre questo velo di mistero dietro l’Olimpiade», dice Martinenghi a Undici, «come se fosse una gara diversa… È vero, è una gara diversa perché capita una volta ogni quattro anni, però paradossalmente all’Olimpiade ci sono tutti gli stessi nuotatori che ci sono anche ai Mondiali, e nella mia specialità, la rana, più o meno anche agli Europei. Non è una gara così diversa: è il contesto che la rende tale. Ma se riesci a schermarti dal contesto, dal villaggio olimpico, sai, da tutto quello che è il caos olimpico, per me si riesce tranquillamente a fare tutto. Anche perché io fortunatamente ho la gara il primo giorno ed eventualmente la finale il secondo, poi le staffette sono in coda al programma, quindi avrò un sacco di tempo libero in mezzo. Se vorrò staccare un giorno, avrò il modo di farlo».

La serenità di Martinenghi è data anche dal fatto che lui, a differenza di Ceccon, primatista del mondo dei 100 dorso, non subisce la pressione di essere il favorito per la vittoria a Parigi: i tempi su cui sta gareggiando ormai da un anno il cinese Qin Haiyang, ma anche quelli su cui può tornare il britannico Adam Peaty dopo un anno e mezzo di assenza dalle competizioni per problemi di salute mentale, sembrano — e molto probabilmente lo sono — inarrivabili per il ranista italiano. Il suo record italiano sui 100 è 58’’26, e ormai risale al 2022, due stagioni fa, mentre Peaty e Qin sono due dei soli tre nuotatori della storia ad aver infranto la barriera dei 58 secondi. Per questo motivo in primavera, a Eurosport, Martinenghi ha detto che metterebbe la firma per una medaglia di un qualsiasi metallo a Parigi. Allo stesso tempo, però, Martinenghi è salito almeno una volta sul podio in una gara individuale nelle ultime dieci grandi manifestazioni internazionali consecutive a cui ha partecipato, dagli Europei in vasca lunga del maggio 2021 ai Mondiali in vasca lunga dello scorso febbraio, passando per l’Olimpiade di Tokyo (bronzo nei 100 rana), i Mondiali del 2022 (oro sfruttando l’assenza di Peaty) e quelli del 2023 (argento dietro a Qin). La sua serenità, quindi, è anche consapevolezza, maturità, fiducia nei propri mezzi tecnici e mentali.

«Ci pensavo proprio ultimamente», continua, «ho 30 e passa medaglie internazionali, un traguardo che mai mi sarei aspettato di poter raggiungere ma soprattutto che non sapevo di aver raggiunto finché non l’ho letto su Wikipedia. Oro, argento o bronzo non mi cambia molto: la cosa più importante è esserci sempre. Anche a Parigi: mentirei se dicessi che vado lì per gareggiare e basta, anzi, io vado lì per confermarmi sul podio, però non la vivo come se fosse la gara della vita. Ogni tanto leggo che l’Olimpiade a 25 anni è l’Olimpiade all’apice della carriera… Io sinceramente all’apice della carriera mi ci sono sentito anni fa e magari mi ci sentirò di nuovo, ma la verità è che non sai mai quando sei veramente all’apice della carriera, perché è impossibile capirlo. Ti accorgi invece quando stai calando, e allora pensi: ah, forse lì ero all’apice. Quindi non mi creo grandi pressioni. Alla fine, lo ripeto, Parigi è una gara come tutte».

Ma da dove deriva questa forza mentale? Nicolò Martinenghi è il perfetto esempio del “garista”, dell’atleta che si esalta nei grandi eventi, un po’ come Gianmarco Tamberi o Marcell Jacobs, per restare nell’attualità dello sport italiano. E questa preziosa qualità è una dote innata o si può costruire nel tempo?, domandiamo a Marco Pedoja, il suo allenatore dal 2011, ormai una vita. «Ci devi nascere», risponde, «puoi allenarla nel senso che puoi stimolarla, ma, come si dice, è difficile far diventare un asino un cavallo. Lui ci è nato, e non solo nel nuoto, perché è competitivo in tutto. Non è l’atleta che va avanti e indietro nella vasca e ascolta i tempi che fa. No. Lui a ogni tempo paragona una frequenza, un numero di bracciate, una sensazione di fatica, e poi, solo alla fine, anche il risultato. Ma nel frattempo tutto questo lo metabolizza. Anche in gara: non è che entra in acqua per fare un tempo, lui entra in acqua per toccare davanti. Infatti quando deve nuotare un certo tempo, magari per qualificarsi a un evento internazionale, va un po’ più in difficoltà. Invece quando deve toccare davanti, indipendentemente dal cronometro, anche se magari è una finale mondiale, lui lì tira fuori il meglio di sé».

Nicolò Martinenghi è nato a Varese il 1° agosto 1999. Nella sua carriera ha vinto, tre altre cose, due medaglie olimpiche (bronzo nei 100 rana e con la staffetta 4×100 mista a Tokyo 2021), sette medaglie mondiali in vasca lunga e sette medaglie europee in vasca lunga. (Quinn Rooney/Getty Images)

«Vendere cara la pelle sempre, no?», aggiunge Martinenghi, «è un po’ questo quello che bisogna fare. Sì, confermo che ci nasci con questa cosa. L’indole di voler combattere, l’odiare il perdere, il voler arrivare a tutti i costi li puoi costruire, ma fino a un certo punto. Io me li riconosco. La sconfitta l’accetto, ma la odio. A me la sconfitta non piace per niente. A quelli che dicono che la sconfitta è costruttiva rispondo che sì, sarà anche vero, sarà pur sempre costruttiva, ma preferisco costruire un’altra cosa piuttosto che una vittoria dopo una sconfitta».

Eppure durante la carriera di Nicolò Martinenghi c’è stata una lunga fase, neanche troppo remota, in cui tutta questa maturità doveva ancora formarsi. O, quantomeno, nella quale lui doveva prenderne del tutto coscienza. È il periodo tra il 2018 e la vigilia dell’Olimpiade di Tokyo, dopo che una frattura da stress al pube lo aveva costretto a saltare un’intera stagione. «Mi allenavo da dieci, ma in gara rendevo sette», ha confidato qualche anno fa a GQ. «Lì sono cascato dal pero», spiega ora, «venivo da un momento in cui sentivo di poter cavalcare le onde e sono finito in un down totale. Non avevo più niente di certo. All’epoca nuotare non mi interessava neanche così tanto, sono sincero, volevo godermi l’ultimo anno di scuola e la maturità come un ragazzo qualsiasi, ho fatto i miei errori, le mie cazzate. Quando andavo alle gare mi sentivo uno tra tanti, come se fossi lì per caso. Volevo che gli altri dicessero: ah, c’è anche lui. Ma non ci riuscivo». La svolta è avvenuta quasi per caso, a un mese dai Giochi, durante il Trofeo Settecolli disputato a Roma. Martinenghi nuotò i 100 rana con una tattica diversa dal solito, un passaggio ai primi 50 metri più controllato rispetto alle sue abitudini e una seconda vasca molto più veloce. Con un tempo finale di 58’’29, migliorò il record italiano della specialità e si presentò in Giappone con una convinzione diversa.

Di Tokyo Martinenghi dice di non avere molti ricordi, pochi flash nitidi di quell’Olimpiade, poche emozioni, memorie fuori fuoco. Il momento in cui ha definitivamente realizzato di aver vinto una medaglia, però, è ancora vivo nella sua mente, ed è un racconto da leggere direttamente dalle sue parole, da assaporare senza la mediazione dell’intervistatore. «Della premiazione, come detto, ricordo pochissimo. Poi vado all’antidoping e rimango da solo, se n’era andato via anche il medico della federazione. Salgo sul pullman per tornare al villaggio olimpico e c’erano soltanto, tre file dietro di me, un nuotatore brasiliano e sua moglie. Davanti a noi, l’autista. Ero sul pullman, una giornata come tante, era pure mattina perché le finali erano al mattino per ragioni di diritti televisivi, facevo finta di niente. Poi però ho pensato: oh, ma ho appena vinto la medaglia che sognavo da una vita! Allora ho aperto lo zaino e, in mezzo agli asciugamani, alle cuffie, ecco spuntare questo cordino un po’ bagnato. Era lei, la medaglia. L’ho guardata e, sai… lì qualche brivido ti viene. È stata un’emozione davvero forte. Io non so cosa voglia dire avere un figlio, però credo che sia più o meno uguale», conclude. «Lì ho visto nascere qualcosa che avevo desiderato e costruito da tantissimo tempo».