Federer: Gli ultimi dodici giorni di Asif Kapadia è un’inedita Via Crucis del campione

Il documentario disponibile da oggi su Prime Video ha un qualcosa di teatrale: anche se l'eroe muore, può esistere comunque il lieto fine.

Dare l’addio è un’arte, così come scendere in corsa dal mondo mentre continua a girare. Quando Roger Federer e il tennis erano un’unica realtà era impossibile immaginare questo sport senza i suoi rovesci, e inevitabile però non pensare alle ore in cui il suo regno si sarebbe dissolto. L’annuncio del ritiro e i giorni dell’abbandono sono al centro del documentario Federer: gli ultimi dodici giorni (su Prime Video dal 20 giugno). Quelle ultime giornate sono un interminabile rito di passaggio, un cammino di consapevolezza per Federer, che ha bisogno di tutto il calore del mondo per attraversare la fase più delicata della sua carriera: decisione di ritirarsi, annuncio pubblico, ultimo match. Il coraggio arriva dalla moglie Mirka, dai figli, dagli altri mostri della racchetta e dalle vecchie glorie tennistiche con il ruolo di dimostrare che, oltre il congedo, esiste ancora la vita: Rod Laver, John McEnroe, Björn Borg. Non si contano nelle scene baci, pacche sulle spalle, strette di mano, abbracci che accompagnano l’uscita di scena dell’eroe. L’eroe in smoking, l’eroe ancora in palestra, l’eroe sorridente con il cane in braccio.

Si sa che nelle opere teatrali il finale è il banco di prova del bravo drammaturgo. Più che il contenuto (che sia il lieto fine o la catastrofe) è però cruciale come si arriva all’epilogo. Anche nella tragedia, tra l’altro, può esistere il lieto fine quando nonostante la morte e il sacrificio a trionfare è la virtù. È proprio questo il senso del documentario. Dopo 24 anni di tennis da professionista e innumerevoli record, la parabola di Federer culmina con la Laver Cup del 2022 a Londra. Ad assistere arrivano tifosi, i genitori Lynette e Robert Federer, i figli, gli amici più stretti e gli altri eroi che hanno avuto diverse funzioni narrative della sua avventura: Nadal, Djokovic, Murray, e sullo sfondo Tsitispas, Berrettini e Ruud. Ogni ospite ha un modo di esprimere le emozioni ma sono tutti ugualmente sferzati dai ricordi, che un montaggio impietoso riversa anche nello spettatore. La giostra infinita di match storici, Roger e Nadal ancora acerbi, coppe sollevate, finali indimenticabili, un Wimbledon con Sampras, tanti colpi miracolosi entrati nel mito, tante cerimonie di incoronazione. I frammenti che scorrono – il regista è il premio Oscar Asif Kapadia e il co-regista è Joe Sabia – indugiano in modo ricorrente sui piedi di Federer nei suoi colpi più celebri sempre sollevati da terra, svolazzanti in aria, Federer ha calcato campi di tutto il mondo ma li ha soprattutto sorvolati, per lui terra rossa, erba e cemento hanno sempre avuto la consistenza di tappeti elastici sui quali volteggiare. E a forza di volteggiare, prima o poi si prende definitivamente il volo.

L’addio è soprattutto il taglio con il passato, il futuro è celato dietro lo squarcio in un velo ancora integro. Il documentario richiama inevitabilmente le dimissioni sussurrate in latino del papa Benedetto XVI, l’annuncio improvviso di Philip Roth circa il suo ultimo romanzo, il libro del deejay Linus Fino a quando in cui ipotizza il suo ultimo giorno alla radio, il documentario su Totti che lascia il calcio, e quello di Ilary Blasi in cui raccontava che Totti rivide quel documentario sull’addio per giorni, ininterrottamente.

Pronti con i fazzoletti?

Nel teatro esistono due modi per raccontare la morte dei protagonisti: la morte in scena (tipico è il duello) e la morte solo raccontata, fuori dalla scena, come avviene per secoli (questa soluzione mitiga un po’ lo strazio). Federer sceglie di morire sulla scena, tra la riga di fondo e la rete di metà campo. Nella Laver Cup gioca come ultima partita un doppio insieme a Nadal, non più suo avversario. Solo alla fine del match si scioglie tutta la tensione drammatica accumulata. Federer metaforicamente muore ma trionfa (ecco il caso della tragedia con lieto fine) perché tutti lo amano e piangono per lui. La fierezza è nei volti di tutti e la commozione travolge pubblico, protagonisti, spettatori. Forse però il più disperato in assoluto è Nadal. È il coniuge che dopo una vita felice seppellisce la sua metà ed è costretto a vivere da solo assediato dalla memoria dei tempi lieti. «È stato il giocatore più importante della mia carriera tennistica», dice a un certo punto Nadal, con un volto annebbiato dalla tristezza. La malinconia lo sfigura sul finale, nelle scene di pianto diventate famose mentre un’epoca tramonta e l’unica possibilità è lasciarsi andare alla nostalgia. Diventa Nadal all’improvviso la vera figura tragica. Da quel momento in poi porterà il peso del sopravvissuto. Da quell’ultimo match point giocato accanto a Federer – in cui si rende manifesto che hanno sempre tratto forza uno dall’altro – ogni partita di Nadal è tutto ciò che ci rimane di Federer. Fino al ritiro di Nadal, Federer non sarà completamente uscito dal mondo del tennis, uno spettro si aggirerà ancora per i tornei del pianeta con la speranza di conquistare altre finali. Solo all’ultimo colpo di tennis di Nadal il sipario su Federer si chiuderà, stavolta per sempre.