Nella Nazionale c’è molto più talento di quello che pensiamo

L'esplosione di Calafiori è solo la punta di un iceberg: l'Italia di Spalletti, le Under e la Serie A sono delle eccellenti palestre formative.

La prestazione sontuosa di Riccardo Calafiori contro l’Albania ha avuto uno strano effetto: ha rivelato al mondo il grande talento di uno dei giovani difensori più promettenti in circolazione. Non solo in Italia, ma in tutta Europa. Non a caso, viene da dire, Twitter è impazzito alla ricerca di somiglianze tra lui e i grandi difensori italiani del recente passato, Maldini, Nesta, Cannavaro: colpa dei capelli lunghi e della fascetta. Su Instagram e TikTok gli algoritmi, hanno sostituito i video di cucina con quelli di Calafiori in versione supereroe, fulmine, cecchino dalla mira infallibile. È strano perché chi lo ha notato solo sabato scorso deve essersi perso un’intera stagione di Serie A. Un campionato intero di passaggi progressivi, corse palla al piede, anticipi a metà campo e altre dimostrazioni di come un difensore moderno riesca a essere dominante in un contesto di gioco moderno, liquido, relazionale.

Negli ultimi mesi abbiamo letto e sentito più volte tutti i passaggi cruciali della breve carriera di Calafiori. Abbiamo riconosciuto nel suo percorso una dinamica atipica. Da un lato c’è l’evoluzione sul campo, la trasformazione che da esterno d’attacco – nei primissimi anni di calcio – l’ha portato a essere un centrale difensivo, passando per l’esordio tra i grandi come terzino. Dall’altro c’è un tragitto che l’ha portato dalle giovanili della Roma al Basilea, dopo quell’infortunio del 2018 in Youth League che lo aveva costretto a ricostruire menischi, legamenti e capsula, e forse a rischiare di non poter più giocare. La Svizzera, per Calafiori, è stata un nuovo punto di partenza, un secondo inizio con un coefficiente di difficoltà diverso. Poi l’estate scorsa è arrivato a Bologna per essere una pedina in più, un role player in una squadra già affollata di difensori mancini. È stato bravo Thiago Motta a valorizzare il fisico potente e la tecnica e l’intelligenza tattica fuori scala di Calafiori. Soprattutto, a vedere in lui un compendio di qualità perfette per farne l’alfiere della più recente rivoluzione tattica: l’esplosione dei difensori invasori che diventano protagonisti anche al limite dell’area avversaria.

Il Bologna di Thiago Motta non era solo una squadra perfetta per le qualità di Calafiori. È stato uno dei grandi punti di interesse dell’ultima stagione calcistica, in un campionato che ormai da anni è un grande laboratorio tattico. Ruolo che ha ereditato dalla Liga spagnola, che nel frattempo si è incupita in uno strano Medioevo – chiediamo scusa a Barbero e tutti i medievisti, non sono stati solo tempi bui quelli. La Serie A ha un’offerta tattica variegata, ricercata. Per un calciatore, venire in Italia significa cimentarsi in una sfida di comprensione e lettura del gioco che, settimana dopo settimana, diventa sempre più complessa. Significa confrontarsi con un campionato che costringe a interpretare il calcio in tutte le sue declinazioni contemporanee: una palestra formativa per i nuovi talenti.

Questo non vuol dire che la Serie A sia diventata una tappa necessaria per tutti i giocatori giovani o giovanissimi che devono ancora trovare la loro identità. Intanto perché i grandi club italiani fanno fatica a competere con le controparti inglesi e spagnole. E poi perché i percorsi formativi possono avere forme e curve e traiettorie di ogni tipo, è difficile individuare dei pattern fissi validi per tutti. Di sicuro, però, le ultime stagioni stanno confermando che anche dalle nostre parti il talento può  sbocciare e crescere. Anche se spesso si dice il contrario. In fondo, è sufficiente guardare alla Nazionale portata da Spalletti in Germania: ci sono un centrocampista di primissimo livello come Barella, un ottimo incursore come Frattesi, un terzino potenzialmente perfetto per squadre che vogliono dominare il gioco a partire dal possesso come Dimarco. Sono giocatori che hanno saputo interpretare le più recenti evoluzioni del gioco anche grazie al lavoro di allenatori e staff tecnici incontrati nei loro percorsi in Serie A. Certo, non saranno i Bellingham, i Musiala e i Gvardiol che vediamo altrove, ma andando oltre la ristrettissima élite globale si nota una certa competitività diffusa nella nostra Serie A. Soprattutto dal punto di vista formativo.

C’è un dato che può aiutare a inquadrare questa condizione: quello dei convocati a Euro 2024. In cima alla classifica ci sono i campionati inglesi, che hanno portato in Germania 114 giocatori. Poi però ci sono i 104 tesserati da club italiani, di cui otto del Bologna citato all’inizio. È una distanza piccola, significativa proprio per questo. La Germania, terza con 81, è molto più staccata dall’Italia di quanto non lo sia l’Italia dall’Inghilterra.

Nell’ultima amichevole prima degli Europei, contro la Bosnia, Nicolò Fagioli ha dimostrato perché Spalletti ha scelto di portarlo nei 26 convocati nonostante una stagione praticamente saltata di netto. La sua partita è racchiusa in un video di poco più di quattro minuti che si può trovare su YouTube. A prima vista non ci sono highlights particolarmente esaltanti, è una partita da 79 tocchi totali con poco o niente di speciale. Solo che gli errori di Fagioli si contano sulle dita di una mano, non c’è un passaggio che non sia ragionato, non c’è una giocata affrettata o dannosa per la manovra. Non è la partita di Toni Kroos o di Pirlo, che se avevano il tempo di alzare la testa mandavano il compagno in porta o all’ultimo passaggio. Ma in quei pochi minuti di video incentrato su Fagioli si vede un calciatore che ha una maturità incredibile, per essere un 2001.

Fagioli è il prodotto migliore, fin qui, della Juventus NextGen. È il prototipo di un talento diverso da quelli che di solito produce il calcio italiano. Non è il giocatore che sembra dover spaccare il mondo a ogni possesso, o almeno risolvere la partita con una giocata individuale. È un centrocampista di palleggio, che ama toccare il pallone per prendere confidenza con la partita, gli serve per trovare il ritmo e il tempo della manovra. È un talento raro, in Italia ma forse anche nel mondo, in un’epoca di centrocampisti dal dinamismo elettrico come Gavi, Camavinga, Zaïre-Emery o Mainoo. Forse Fagioli non ha ancora fatto vedere i lampi dei giocatori citati qui su, che pure sono più giovani di lui anagraficamente, però è un centrocampista di estrema intelligenza tattica e visione, con margini di crescita ancora inesplorati.

Il caso di Fagioli, così come quello di Calafiori o magari come quelli di Scalvini e di Udogie, ci raccontano che la filiera del talento italiano è ancora viva. È florida anche se meno appariscente, con nomi meno altisonanti. Nel gruppo chiamato da Spalletti ci sono ancora Donnarumma e Bastoni, due dei migliori interpreti del loro ruolo a livello europeo, e all’appello – oltre a Scalvini e Udogie, entrambi fermi per infortunio – mancherebbe anche Tonali. Tutti questi calciatori sono cresciuti nei vivai di club di primo piano in Serie A (Tonali no, ma è arrivato al Milan molto giovane), hanno avuto percorsi più o meno lineari nei rispettivi club, dalle giovanili alla prima squadra. Anche questa, a pensarci bene, è una novità per il nostro calcio.

È vero però che questo è il vertice della piramide calcistica italiana. Perché gli Under 21 in Italia non giocano molto: come emerge da un report recente del CIES, i club di Serie A sono quelli che sfruttano meno i settori giovanili. Perché? Forse per motivi che forse sono culturali, o di natura più intangibile, il nostro è un Paese che ha sempre bisogno di una spinta in più per premiare i giovani. In Italia è come se ci fosse un indistruttibile pregiudizio, o fraintendimento, o forse uno strano sospetto sui giovani. C’è nel calcio come in tutti gli altri settori. Intorno alla Nazionale di Spalletti, per dire, resiste ancora la sensazione che, se non si fosse infortunato Acerbi, non avremmo visto la coppia Bastoni-Calafiori. 

Eppure i segnali dal campo arrivano, in continuazione. I 2007 italiani non saranno come Lamine Yamal e Pau Cubarsí che vediamo al Barcellona – che possono essere solo delle eccezioni – ma nel frattempo l’Under-17 ha vinto gli Europei di categoria, l’Under-19 è campione d’Europa in carica e l’Under-20 è arrivata in finale agli ultimi Mondiali di categoria. Forse è vero che in Italia non giocano e non vediamo da tempo fenomeni da Pallone d’Oro, campioni affermati che possono contendere a Mbappè o Vinícius Jr. il titolo di più forti del mondo. Di certo mancano anche dei grandissimi club in grado di sfidare le migliori squadre di altri campionati, in campo e soprattutto sul mercato. Ma c’è ancora quella capacità artigianale di coltivare il talento, di svilupparlo e dargli una forma adeguata alle esigenze del calcio contemporaneo. Ha tempi e modi leggermente diversi dagli altri, ma su questo ci si può lavorare.