L’importante è sentirsi libero in pedana, intervista a Mattia Furlani

La grande promessa del salto in lungo italiano, reduce dall'argento agli Europei di Roma, punta alla medaglia alle Olimpiadi di Parigi.

Quello di Mattia Furlani, classe 2005, non è più un nome nuovo nell’atletica e in generale nello sport italiano, anzi. La medaglia d’argento con cui ha fatto ritorno dagli Europei di Roma, in casa, ha offerto un’elettrizzante anteprima del futuro che attende il saltatore azzurro, alimentando le speranze del movimento (nella miglior fase della propria storia) e del pubblico (per definizione poco paziente) in vista dei suoi primi voli olimpici. Negli ultimi mesi, del resto, Furlani ha fatto incetta di riconoscimenti e traguardi raggiunti: “Atleta europeo emergente” dell’anno, record nazionale e poi mondiale a livello giovanile (8.38), la medaglia vinta a Roma. È arrivato dietro soltanto a Miltiadis Tentoglou, mentre il greco ritoccava il suo personale (8.65, due volte) e restituiva un’altra volta la sensazione di appartenere, a oggi almeno, a una categoria superiore a tutti gli altri. «Quando gareggi con un campione olimpico, mondiale ed europeo, che sta facendo il panico da un sacco di anni», raccontava Mattia prima degli Europei, «se gli arrivi dietro non casca il mondo, ecco. L’obiettivo è cercare di superarlo, a tutti i costi, ma per l’età che ho, per il percorso che sto facendo, guardo a Tentoglou semplicemente come un esempio».

Nessun maniavantismo, tutt’altro. L’ambizione e lo spirito competitivo non mancano a Furlani, che anzi vola molto lontano — sorpresi? — parlando del suo futuro. Ci sono ambiti, però, in cui è davvero come si dice: ogni cosa a suo tempo, e il salto in lungo appartiene a quelle discipline. È Mattia stesso, nonostante la giovane età, a ricordarlo: «Per questioni biologiche, non è adesso la miglior condizione fisica in cui sarò nella mia carriera, sono in un’età di passaggio. Un saltatore si deve costruire un po’ alla volta, e io sono all’inizio della mia costruzione, la gente deve esserne consapevole. I tempi e la crescita nel salto sono diversi rispetto a quelli di altri sportivi: nel nuoto magari, o nel tennis, lo sviluppo biologico è meno necessario, meno determinante, puoi vedere un sedicenne che fa risultati incredibili. Io invece devo crescere con pazienza, senza forzare i tempi. È il nostro corpo che ci impone di non velocizzare i processi: se gli vai contro rischi di romperti, e alla lunga stare in salute ed evitare infortuni gravi, che ti porti dietro per anni magari, fa la differenza. Io ho messo su chili piano piano, aumentando progressivamente i carichi, e spero di continuare ad avere il percorso che ho avuto fin qui, pulitissimo da questo punto di vista».

Un futuro da coltivare con pazienza, insomma. Da aspettare con la proverbiale calma olimpica, la stessa con cui si vede e racconta, nonostante abbia bruciato una dopo l’altra le tappe. Dalle sue riflessioni emergono una lucidità e una maturità non scontate per un ragazzo di 19 anni. «So di aver avuto un’evoluzione particolarmente veloce, che pochi atleti in Italia hanno avuto, e sento tutto l’hype che si sta creando intorno a me. Allo stesso tempo, però, sto arrivando al punto in cui la gente capisce davvero come funziona la mia disciplina e a che punto sono del mio percorso, non si aspetta che faccia 8.50, 8.60 all’esordio, ed è una cosa bella. Se ti dovessi dare una percentuale, direi che attualmente mi sento e penso di essere al 65 per cento. Sono partito a 15 anni che ero tutto da costruire fisicamente, e da lì ho fatto parecchia strada, ma ho ancora tanta, tanta crescita davanti. Poi certo, ci si attende che io faccia bene nelle gare che contano e quindi c’è un po’ di pressione, come giusto che sia, però la vivo positivamente».

L’esordio nei Giochi, intanto, si avvicina. Il prossimo 6 agosto allo Stade de France si salterà per le medaglie olimpiche, ed è allora che quell’hype descritto da Furlani si trasformerà, inevitabilmente, in pressione. Opprimente? Ad ascoltarlo, non sembra. «Purtroppo o per fortuna, sono le motivazioni che ci spingono a saltare e lavorare in allenamento: dobbiamo imparare a non renderle ansia, e ricordarci sempre che non possiamo evitarle. Credo che un atleta debba convivere con pressioni e aspettative, necessariamente. Sono praticamente un avversario imbattibile, alla fine: come fai a combattere qualcosa che ritorna comunque tutti i giorni? È impossibile. Bisogna averne consapevolezza, cercare di usare sempre la testa».

Mattia Furlani, tesserato per le Fiamme Oro, è figlio di Marcello Furlani, ex saltatore in alto, e di Khaty Seck, velocista italiana di origini senegalesi. (Michael Steele/Getty Images)

Se gli viene chiesto di fissare un limite cui potrebbe ritenersi soddisfatto dei propri salti, a prescindere dalle misure degli avversari e del piazzamento, risponde: «Il Mattia di quest’estate può toccare tranquillamente gli 8.50». Una medaglia, però, ha un peso. Si mette al collo, poi in bacheca; i numeri no. «Esatto, e poi diciamo che dipende dalla gara e dall’annata, influiscono un sacco di fattori. C’è il giorno di pioggia e freddo in cui si deve combattere, e in cui magari la medaglia si vince con 8.10, 8.20; può succedere qualsiasi cosa. La medaglia è l’obiettivo, ma mettermi pressione per determinati risultati non avrebbe senso nell’immediato. Farò tanti Giochi, Mondiali ed Europei: ci tengo alla gara di Parigi ma non cambierà la mia prospettiva. Per come la vedo io, e per come la sto vivendo io, sto facendo un percorso spettacolare: tutti gli obiettivi che mi sono imposto in questi anni, sono riusciti a raggiungerli, tutti, e spesso anzi sono andato oltre».

L’ambizione, no, quella non manca. E neppure una punta di orgoglio, perché la strada che ha portato Furlani a questo palcoscenico non è stata proprio convenzionale. Il basket da piccolo, poi ha corso e soprattutto ha fatto salto in alto per diversi anni, fino al passaggio al lungo. «Ho avuto un percorso particolare, perché appunto sono passato dal salto in alto al salto in lungo. Sono due discipline completamente diverse tra loro, non c’entrano proprio nulla, soprattutto a livello di programmazione e preparazione, però combinandosi mi hanno dato tanto. La mia velocità nella corsa, poi, è un punto di forza che ho portato nel salto. Io non sono uno da prove multiple, ma per il percorso che ho avuto sono diventato un atleta versatile, ed è una cosa che voglio conservare. Oltre a correre sempre in allenamento, che è ovvio, non ho mai smesso di fare salto in alto, ogni tanto. In primis perché è molto utile anche nel lungo per me, e poi perché rimane uno sport che amo: sono cresciuto guardando l’atletica da quella prospettiva, era il mio mondo, e penso tuttora che il salto in alto sia la disciplina più bella in assoluto. Poi è arrivato il salto in lungo, una disciplina diversa, per me nuova, ancora più naturale nel gesto. Me ne sono appassionato in poco tempo e poi certo, è facile dirlo quando la prima volta in pedana fai 8 metri…».

Hanno una cosa in comune tra loro, il salto in lungo e il salto in alto: ciò che un saltatore esterna prima e dopo il proprio tentativo, il modo in cui vive l’evento e la competizione, le emozioni che trasmette e cerca nel pubblico. Gianmarco Tamberi, ad esempio, ci ricorda ciclicamente quanto un personaggio sopra le righe — tra outfit originali e gag in favore di telecamera — possa divertire, intrattenere e anche dividere gli spettatori. «Quando si entra in pedana bisogna essere consapevoli delle proprie capacità, e lo si deve rimanere per tutta la gara, qualsiasi cosa accada», spiega Furlani, spostando l’attenzione sulla prospettiva dell’atleta, «quello che conta, semplicemente, è sentirsi bene in pedana. Se un atleta che esulta e reagisce in un certo modo può sembrare spaccone, non so come dire, magari anche io lo sono… Però anche questo mi aiuta a essere leggero e libero in pedana: fare il mio gioco, sentirmici dentro, con le mie esultanze e il mio modo di saltare, di vivere l’atletica. Può darsi che dall’esterno si abbia un’impressione diversa, ma è il mio modo di vivere l’atletica, è come mi sento in quel momento. Nel mio caso, fuori dalla pedana credo di essere un’altra persona, chi mi conosce lo sa. Penso sia normale, però: siamo soli in gara, ed è uno sport in cui tutto il lavoro, ed è davvero tanto a questo livello, tra studio, programmazione, allenamento e cura del corpo, ecco, tutto questo lavoro si decide in qualche salto. Pochi secondi, che passano ogni quattro anni, in una carriera che ne dura dieci o quindici: devi fare il salto giusto, al momento giusto, nel posto giusto. Capite che è fondamentale avere tanta, tanta, tanta autostima, e ognuno ha il suo modo di esprimersi per mantenere la giusta mentalità durante tutta la gara. Io ho il mio».

Una cosa è certa: quegli 8.50 metri di cui ha parlato, a 19 anni, al debutto olimpico, metterebbero tutti d’accordo. Se non sarà la sua estate, poi, ci riproverà ai Mondiali di Tokyo, tra dodici mesi, quando magari avrà raggiunto il 75-80 per cento del processo che ha in testa. Mattia Furlani ci chiede, avvicinandosi a Parigi, di salire sul suo carro e di non avere paura a sognare in grande, ma di non prendere un biglietto di sola andata. Tenendo a mente che, sì, ogni cosa a suo tempo. La flight mode è appena stata attivata.