Thiago Silva ha messo d’accordo tutti

Sta lasciando l'Europa uno dei difensori più forti e più belli da vedere della nostra generazione.

Ai tempi delle superiori, in un angolo della mia classe, un compagno di scuola aveva appeso un ritaglio di giornale, una prima pagina della Gazzetta, il cui titolo era: “Thiago, il muro del Milan”. Considerate le tristi condizioni in cui versavano le pareti dell’istituto, l’effetto prodotto da quell’accostamento poteva suonare anche comico, se non seguivi il calcio e lasciavi che la mente vagasse per conto suo. Se invece eri un tifoso rossonero, quel pezzo di giornale lì appeso non rappresentava soltanto un attestato delle qualità del giocatore, ma serviva a cristallizzare il momento, a fissare un dato contro il tempo in divenire e il continuo mutamento di opinioni, titoloni e mode. Insomma, era quanto di più simile a un crocefisso o un santino ci si potesse inventare, uscendo dall’insieme delle figurine. Eterno come sembrano i giorni di maggio, quando si è confinati in un’aula scolastica e ci si ritrova a osservare il mondo fuori dalla finestra. Eterno fino a quando qualcuno non lo avesse staccato per sfregio o dovere. Eterno fino al momento in cui Thiago Silva non fosse andato a essere il muro di qualche altra squadra. Ipotesi remota, pressoché impossibile, per non dire sacrilega, durante quella primavera tricolore, quando si pensava già al futuro, alla seconda stella, a un Milan che sarebbe rimasto per sempre il Milan che non vende i propri campioni, se ancora all’apice, nonché una squadra pronta a prendersi un posto da protagonista sulla scena nazionale e a rivelarsi una pericolosa outsider in Europa.

Invece, una stagione e uno scudetto perso dopo, ecco la smobilitazione. Quell’estate, in quegli amari giorni di luglio, nonostante l’inchiostro sul rinnovo fosse ancora fresco, iniziano a trovare conferma le voci di un suo trasferimento nel PSG degli sceicchi. E non solo il suo. Anche quello di Ibrahimovic. Pacchetto completo. Sessanta milioni per assopire la sete di rivincita. E sistemare bilanci. Vendita o svendita, era la fine di qualcosa di bello durato troppo poco. E l’inizio delle analisi. Mi ricordo che in quei giorni il numero di pagine del forum sportivo che bazzicavo triplicarono in poche ore. Alle analisi facevano da contrappunto i sentimenti, le teorie complottistiche, le cinque fasi del lutto sportivo. Thiago Silva che già a maggio sapeva del trasferimento, Thiago Silva che si rifiutava di scendere in campo per un dolorino, ma allo stesso tempo Thiago Silva rottame – altrimenti non lo avrebbero venduto – e Thiago Silva mercenario.

Insomma, la rabbia e il sentimento di abbandono erano padroni della pancia e della mente di tanti, in quei giorni. La vendita di quello che all’epoca era considerato il più forte difensore del mondo rientrava tra i primi nefasti effetti del Lodo Mondadori, ma per alcuni era anche la prova che la squadra allestita due anni prima era stata frutto di una reazione d’orgoglio al Triplete dei rivali nerazzurri, e non una mossa dettata da una programmazione a lungo a termine. Programmazione che, a quel punto, non sembrava più sostenibile. Non so se quel pezzo di giornale rimase lì anche dopo, io mi ero diplomato nella stagione del diciottesimo scudetto, ma immagino di no. E non per la pedanteria di qualche collaboratore scolastico: a staccare l’effige di Thiago Silva ci aveva pensato la mano del mercato. E il muro era venuto giù. Il muro che proteggeva il cuore dei tifosi ora era esposto a un futuro che si sarebbe rivelato tutt’altro che roseo. E le immagini di Thiago Silva spettatore a San Siro, infortunato ma sorridente, all’apparenza avulso dalla sofferenza di quel Milan prossimo all’argento, erano sale sul cuore spaccato dei tifosi. Qualcosa si era rotto. Non solo tra i tifosi del Milan e il brasiliano, ma anche nella carriera stessa del brasiliano, che accettando il trasferimento in Francia, alla corte di una squadra con mezzi di gran lunga superiori alle avversarie, in un campionato con meno blasone, relegava se stesso in un contesto che avrebbe ridimensionato la percezione delle sue qualità e delle sue future vittorie. 

Thiago Silva divenne il riflesso un’adolescenza interrotta, per i tifosi milanisti.  Qualcun altro si sarebbe goduto i suoi robotici stacchi di testa, i suoi tackle severi e le sue doti di leadership. Ma tempo qualche mese, tra nuovi problemi e nuovi idoli, il calcio rossonero sarebbe andato avanti. E la figura di Thiago Silva sarebbe presto uscita dalla categoria dei mercenari per reinserirsi tra quelle degli eroi. Complice la successiva Banter Era e gli indegni sostituti, il Thiago Silva rossonero costituiva il baluardo di un passato felice, per i suoi vecchi tifosi. Il Thiago Silva successivo, invece, complice una nuova distanza geo-calcistica dalla realtà italiana e altri fattori, smise di emozionarci. 

Sia chiaro, il tratto distintivo del brasiliano era la capacità di spiccare vestendo di grigio. Anche quando prendeva e usciva palla al piede di scatto, con la rapidità animalesca degli incursori di razza, impossessato dal mediano che fu in giovinezza, non dava l’impressione di voler accentrare su di sé le luci dello show. Le scampagnate in conduzione erano spettacolari, certo, ma sempre dettate dalle necessità dell’azione e della partita. In quei dribbling non c’era l’ostentata, e a tratti melanconica, allegria dei funamboli brasiliani. C’era invece l’eleganza che l’arte difensiva aveva plasmato, se non denaturato, in forza. E, ovviamente, un’abilità di servire il pallone e lanciare in profondità l’attaccante – spesso Alexandre Pato, nel triennio rossonero – che sfociava in passaggi vincenti, quando recuperava la sfera in anticipo e approfittava degli spazi aperti. Ma in Francia, dismesso il più rockeggiante numero 33 e con indosso un più sobrio numero 2, Thiago Silva ha continuato a essere questo Thiago Silva fino a farci dimenticare di lui.

Capitano, capitano vincente, centrale insuperabile, marcatore arcigno che strizzava l’occhio alla modernità del difensore d’impostazione, mettendo d’accordo tutti. Numerosi i campionati vinti, svariate le coppe nazionali e le Supercoppe. Altrettanto numerose le partecipazioni e i piazzamenti in Champions, un tempo chimera irraggiungibile per il PSG e lo stesso Thiago, falciato da una tubercolosi al suo primo approdo in Europa, una vita prima. Una festa mobile, i suoi otto anni in Francia, alla quale però l’ospite d’onore, la coppa dalle grandi orecchie, ha sempre tirato il pacco all’ultimo. E a cui non sono mancati imprevisti, come la Ligue 1 del 2016/17 persa a favore del Monaco. In definitiva un matrimonio ricco, remunerativo e riuscito, ma pure noioso, monotono, specchio dell’irreprensibilità di Thiago, che ha scelto di dare fondo ai suoi anni migliori in una bolla dorata, rendendosi autore di un percorso tanto pragmatico – dove per “pragmatico” s’intende dare priorità ai soldi sul piatto – quanto anti-climatico. E otto stagioni in una bolla, per quanto vincere sia sempre e comunque difficile, creano irrimediabilmente una distanza. Non solo tra presente e passato, ma anche tra idolo e sentimento. A una rimpatriata del liceo, il compagno di scuola che aveva appeso al muro quella prima pagina di giornale mi disse che col tempo aveva smesso di seguire il calcio e che si era quasi dimenticato dell’esistenza di Thiago Silva. «Gioca ancora al PSG?»

Non proprio. L’anno prima aveva vinto da capitano, seppur infortunandosi durante la finale, una Champions League con la maglia del Chelsea, marcando così – per il rotto della cuffia, vista l’età – la casella che nella percezione populista del calcio separa i grandi campioni incompiuti dai grandi campioni e basta. Un risultato che in qualche modo chiudeva un cerchio, spegnendo la preoccupazione che mai ci sarebbe riuscito, visto la malasorte, il tardo arrivo ad alti livelli e le scelte di carriera. Una preoccupazione solo mia e di pochi altri, come poi ho riscontrato, essendo il ricordo di Thiago Silva sbiadito, nei pochi posti che frequento, come è sbiadito il tempo legato all’apice in maglia rossonera. Ma un coronamento così tardivo è fedele alla sua parabola. La parabola di un calciatore che negli anni si è rivelato l’antitesi dello stereotipo del calciatore brasiliano affetto da saudade, che dà il meglio di sé nei primi anni di carriera e per poco tempo. Al contrario, la sua carriera ha avuto i classici tempi di un motore alimentato a diesel. Un crescendo sviluppatosi in sordina, come una fiera in una città limitrofa, o la Storia quando ci passa accanto.

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Chelsea FC (@chelseafc)

Pochi giorni fa, sui canali social del Chelsea, è uscito un video dove Thiago Silva annuncia il suo addio al club e il suo ritorno in Brasile. Lo trovate qui sopra. Non sembra invecchiato di una riga, in questi ultimi quindici anni. E il cuore che ha messo in ogni azione di gioco – tra Milano, Parigi e Londra – emerge attraverso le increspature della voce e le lacrime a stento trattenute. Più che un addio ai suoi attuali tifosi, come avrete intuito dalle tre città menzionate sopra, io ci ho visto un addio al calcio europeo. A un capitolo della propria vita che un tempo sembrava non dovesse neanche iniziare. Guardandolo, come purtroppo spesso mi accade, la gratitudine è stata presto soverchiata dal risentimento, da una sensazione di avidità rimasta inappagata.

Sono sicuro che Thiago Silva me lo sarei goduto di più, se fosse rimasto in Italia o avesse giocato per squadre diverse da PSG e Chelsea. Ma questo poco importa, oramai. Ciò che rimane e rimarrà di Thiago Silva supera giustamente le opinioni e i rimpianti personali. Perché al gioco del calcio e a tutti gli appassionati rimarranno impresse per sempre la sua spettacolarità affidabile, la capacità di sintetizzare in un contrasto durezza e correttezza, il carisma magnetico. Anche se in questi anni ce ne siamo dimenticati, o non ci abbiamo badato, anestetizzati dalla sua costanza di rendimento e dalle altre cose della vita. Incapaci di vedere oltre il muro dei ricordi.