Daniele De Rossi è il comunicatore di cui il calcio aveva bisogno

Anche da allenatore, DDR è il contrario delle frasi fatte e dei pensieri di circostanza: la sua schiettezza e la voglia di parlare di calcio rappresentano un senso di novità necessario.

Daniele De Rossi è sempre piaciuto ai giornalisti. E non solo a loro. Per quel suo modo di comunicare che in realtà è essere sé stesso. De Rossi ha sempre rifiutato i cliché dei calciatori. Raramente, per non dire mai, si è rifugiato nel corredo di frasi fatte che farciscono il rapporto tra chi gioca (o chi allena) e chi tiene un microfono o un bloc notes in mano. Ha scelto un registro comunicativo non tanto all’insegna della sincerità (questo è impossibile dirlo), ma della naturalezza. Come se utilizzasse i media come specchio. Non si ricordano scorciatoie. Nonostante non siano sempre stati rose e fiori. Come pochi giorni fa. Quando, all’indomani, della vittoria contro il Milan in Europa League, semifinale di Europa League, è andato in sala stampa e ha lanciato un quasi ultimatum (anche se il termine è eccessivo). Ha suppergiù detto che il rispetto deve essere reciproco, che da quel momento in poi a decidere la natura del rapporto sarebbe stata la correttezza della stampa. Dei media: «Vi devo bacchettare. Vengo qui a parlare con grande entusiasmo, me lo riconoscete voi che io parlo, non mi trattengo, non mi risparmio, vi dico un sacco di cose. Però poi se il giorno dopo mi dite “Pioli è all’ultima spiaggia” e io dico “No, Pioli non è all’ultima spiaggia, siamo all’ultima spiaggia solo per quello che riguarda la qualificazione in semifinale”, e poi il giorno dopo leggo dappertutto “De Rossi: Pioli è all’ultima spiaggia”, poi uno si incazza e non parla più».

Non solo. Il tecnico giallorosso ha fatto un passo in più. Nella sua ramanzina, che poi è stato un richiamo al rispetto reciproco, ha riconosciuto l’ipocrisia che contraddistingue il rapporto comunicativo tra il giornalismo e gli attori del calcio: «Io rispetto il lavoro vostro così, dandovi tante risposte, parlando ogni tanto di tattica. Poi, però, se dopo scrivete un’altra cosa non mi piace, perché non si fa così, non è corretto. Sennò vengo qui e faccio “Sì, bella partita, siamo contenti, guardiamo al futuro”. Perché io non sono scemo».

Raramente ci siamo imbattuti in un tecnico, ma anche un calciatore, che evidenziasse in maniera così nitida la futilità delle parole che ruotano attorno al mondo del pallone. Quel rito bolso, spesso irritante, delle interviste post-partita, per non parlare di quelle pre-partita che sono il condensato del nulla. De Rossi ha scavalcato lo steccato dell’ipocrisia e ha tenuto un discorso che ha ricordato quello dei genitori o degli insegnanti ai figli. Parole che più o meno noi abbiamo interpretato così (non è il testuale di De Rossi): io ho rispetto di voi, del vostro lavoro, ma se non siete corretti voi allora non lo sarò più nemmeno io e vi propinerò quelle pappine che vi dovete sorbire con quasi tutti i miei colleghi.

La verità è rivoluzionaria. Sarebbe questo il titolo della conferenza di “Danielino”. Così è stato apostrofato per anni da tifosi e giornalisti prossimi alla Roma. Lui non ha mai fatto una piega. Si è sorbito per anni l’etichetta di Capitan Futuro senza fiatare né mostrare un cenno di irritazione. Quantomeno in pubblico. E anche adesso che – diciamolo – ha sorpreso l’universo calcio con risultati su cui nessuno avrebbe scommesso un euro, ha mantenuto il profilo alla De Rossi. Non sappiamo se sarà così per sempre. Però fin qui ha resistito alla tentazione cui nessuno resiste: togliersi i sassolini dalle scarpe. Il mondo del calcio (e non solo quello del calcio) è stracolmo di persone che per molto meno hanno inondato l’etere di “io io io”. De Rossi sta anche mostrando notevole abilità nell’evitare di impantanarsi nella querelle con Mourinho. Confronto che a Roma ovviamente ha tenuto banco per settimane e che, nei bar come nelle radio, è ancora vivo. È riuscito sempre a evitare le sabbie mobili. Senza per questo rifugiarsi nel linguaggio standardizzato. Chiaramente il suo gioco è diverso. Altrettanto chiaramente la sua Roma sta facendo meglio di quella del portoghese. Ma da parte sua non c’è stato alcun cedimento alla proverbiale figura romana dello sborone.

Anche l’altro giorno, quando ha dovuto rintuzzare l’attacco piuttosto spiacevole del presidente Lotito sulla vicenda N’Dicka («Diciamola tutta, hanno fermato una partita per un codice giallo»), ha preferito evitare di alzare i toni anche se ovviamente ha tenuto il punto: «Con Lotito ho un buon rapporto, ma stavolta ha sbagliato. Forse gli è sfuggito un colpo a vuoto. Se qualcuno mette avanti l’interesse e la vita di un giocatore, dovremmo essere tutti d’accordo». Non va mai a rottura. Preferisce la rotondità. È come se concedesse sempre il beneficio del dubbio all’interlocutore.

Il rapporto coi media del De Rossi comunicatore non è stato sempre rose e fiori. Qualche volta è finita anche in tribunale. Come quando Repubblica uscì con l’articolo intitolato “La rivolta di De Rossi e dei tre senatori contro Totti”. Era il 2019. L’articolo raccontava di un gruppo di calciatori (De Rossi, Manolas e Dzeko) che chiedevano l’esonero di Di Francesco e l’allontanamento da Trigoria di Totti, che all’epoca era dirigente. De Rossi definì l’articolo complottista, oltre che falso e diffamatorio. Si finì in tribunale – pare dopo una richiesta respinta di scuse e rettifica – e il tribunale diede ragione a De Rossi con la condanna al risarcimento danni per 27mila euro. Che il calciatore donò all’ospedale pediatrico Bambino Gesù. Lui commentò così: «È stato dimostrato che quelle ricostruzioni infamanti, che mi avevano profondamente ferito e amareggiato, erano totalmente false. Nessuno mi restituirà la serenità che ho perso in quel periodo, quando sono stato accusato di comportamenti lontani anni luce dalla mia storia umana e professionale. L’unica mia consolazione è che a beneficiare del risultato di questa causa sarà il reparto oncologico del Bambino Gesù».

Sono tanti gli esempi. Anche l’altra sera, dopo la sconfitta interna col Bologna per 1-3, quando buona parte dell’ambiente si stava lamentando dell’arbitraggio di Maresca, De Rossi non ha ceduto alla tentazione di rifugiarsi nel comodo populismo. E ha detto: «L’inizio di gara non mi è piaciuto, ma non abbiamo perso per colpa dell’arbitro. Non possiamo farci innervosire così tanto per un giallo sbagliato (a Paredes, ndr), perché ok non era giusta, ma non abbiamo perso per quello. Se vogliamo essere perfetti e se vogliamo continuare questa rincorsa, dobbiamo sapere gestire i momenti. Non solo le ammonizioni, ma una squadra esperta non deve prendere gol al 44’ o dopo il 2-1 perché l’inerzia era a nostro favore». Anche in questo segna una profonda discontinuità col suo predecessore.

Da giocatore non amò Zeman, con cui polemizzò pubblicamente, seppure mai con astio. Rimase profondamente colpito, invece, da Luis Enrique che pure lo escluse in una partita con l’Atalanta per un minuto di ritardo alla riunione tecnica. Di lui, a proposito della sua naturalezza, in tanti ricordano la reazione stizzita mentre era in panchina nel corso di Italia-Svezia spareggio che tenne fuori dal Mondiali del 2018. L’Italia aveva bisogno di segnare e un assistente di Ventura gli chiese di iniziare il riscaldamento. Lui rispose come avrebbero risposto tutti gli italiani: «Ma che cazzo entro a fare?! Dobbiamo vincere, non pareggiare… Fate entrare Lorenzo (Insigne, ndr)».

Forse è questo una delle principali doti mediatiche di De Rossi: interpreta, senza sforzi, il pensiero della maggioranza delle persone di buon senso. Gli viene naturale. È come se avesse un meccanismo automatico capace di farlo pensare fino a cinque prima di rispondere. Di non farsi mai trascinare dall’istinto. Una dote fuori dal comune di questi tempi, figuriamoci nel calcio e in particolare tra gli allenatori che sono ormai refrattari a qualsiasi tipo di critica e sono completamente calati nel ruolo di portatori di verità e di luce. De Rossi, almeno fin qui, ha portato una ventata di diversità. Anche più di una ventata.