La notte perfetta di un nuovo interismo

Racconto del derby scudetto da parte nerazzurra: la catarsi della superiorità rispetto al Milan, l'ottimismo, la consapevolezza di una nuova generazione di tifosi.

«Ora Milano è solo nostra». «Per una cosa così non esiste vendetta». Sono alcune delle frasi altisonanti che ho sentito pronunciare dai tifosi interisti che si muovevano da Cordusio al Duomo, lunedì sera. Uno sciame impazzito popolato da gente di ogni età, giovani e meno giovani, ognuno con la propria idea di rivalità cittadina. Ognuno convinto di aver impresso un marchio indelebile nella propria storia di antagonismo con il Milan. Per quelli meno giovani è stata la notte della benedizione. La notte della definitiva catarsi. Un tempo sarebbe stata preceduta dalla lagna disfattista, dal piagnisteo preventivo che noi interisti avevamo adottato come scudo per proteggerci da possibili delusioni, eretto in anni di dolori e cadute. Vincere il sesto derby di fila, vincere lo scudetto davanti al Milan per la prima volta nella storia, cucirsi la seconda stella sul petto. Tutto insieme. Uno smacco totale. Una chance così ghiotta e irripetibile che l’Inter non avrebbe potuto fare altro che fallire. Non ci sarebbe stata nessuna possibilità di farcela, almeno nella percezione dei tifosi. Più che una grande occasione, una condanna.

E invece questa volta l’aria era diversa, carica di entusiasmo e fiducia. La pioggia biblica caduta su una Milano improvvisamente dicembrina non è stata vista come presagio di sventura, ma come ammiccamento divino per una serata che sarebbe rimasta per sempre. Un ottimismo sfacciato serpeggiava nelle chat con amici interisti, stranamente tranquilli nel dire “vinciamo”. D’altra parte, almeno razionalmente, come si faceva a non essere ottimisti? L’Inter ha cannibalizzato il campionato, il Milan arrivava con le ossa rotte per l’eliminazione dall’Europa League che aveva ridotto in cenere la sua stagione, e il castigo per un mancato successo sarebbe stato festeggiare il ventesimo scudetto pochi giorni dopo.

Ma non è solo per questi motivi se gli interisti avevano finalmente scoperto il piacere delle buone sensazioni. Sono anni che l’interismo è cambiato, che non è più quello del pessimismo e dei continui sbalzi d’umore. È un interismo più stabile e sicuro di sé. Partorito dal successo epocale del Triplete, sedimentato in anni di buio senza intermittenze e fiorito in un’epoca operaia in cui la squadra è dovuta cresciuta con idee e lavoro e non con i soldi. Un interismo che non si sente più bersaglio della malasorte, che non si riflette più nell’elogio della follia, buona o cattiva che sia. Un interismo sempre romantico ma meno bohemienne. Soprattutto, un interismo che non vede più il Milan con gli occhi del terrore. Perché questo è stato il Milan per ogni interista per più di un decennio, tra gli anni Novanta e i primi Duemila, una maledizione. L’incubo di quella squadra che rendeva il successo una faccenda banale è un ricordo sfumato dal tempo. Così come i lampi di Kaka, i gol di Shevchenko, il luccichio delle sette Champions League e tutto quel campionario di bullismo sportivo che ha segnato un’intera generazione di interisti.

Dal periodo di Banter Era condiviso con il Milan negli anni Dieci, l’Inter è riemersa con meno affanni, più fiducia nel futuro e risultati migliori. Si è riaffacciata prima in Champions League ed è tornata prima a vincere lo scudetto. Per quanto doloroso, nemmeno lo scudetto perso proprio in favore del Milan, nel 2022, aveva scalfito quella sensazione di superiorità. Lo aveva dimostrato l’abbraccio ideale del pubblico al termine dell’ultima giornata contro la Sampdoria, quella che ha deciso il titolo, con i giocatori dell’Inter in lacrime sotto la curva e tutto San Siro a consolarli con applausi e cori, uno dei più intensi momenti di comunione sentimentale tra squadra e tifosi che abbia mai visto in uno stadio di calcio. Lo certificavano i festeggiamenti fragorosi dei milanisti, consapevoli di aver fatto un’impresa. L’inter si sentiva più forte: era inciampata da sola, per contingenze e inesperienza di un allenatore in divenire, ma il tempo avrebbe rimesso a posto tutto. L’interista si sentiva più forte. Eppure il Milan era di nuovo lì, con stimmate diverse rispetto al passato glorioso ma di nuovo competitivo. La vittoria perentoria nell’Euroderby di semifinale Champions dello scorso anno, oltre a ricucire la ferita del 2003, sembrava potesse cristallizzare questo sorpasso. Ma un senso di incompiuto aleggiava ancora nell’aria. Non bastava quella rivincita né i cinque trofei contri due conquistati negli ultimi dieci anni. Mancava ancora qualcosa.

A Istanbul, dopo la finale persa con il Manchester City, le voci rotte dei tifosi fissavano nella seconda stella l’obiettivo principale della stagione successiva. Lo stesso hanno fatto la squadra e il club dal ritiro iniziato un mese dopo: «Prima che il campionato iniziasse, ognuno di noi aveva in mente di vincere lo scudetto», ha detto pochi giorni fa Calhanoglu in un’intervista al podcast It’s Hakan O’ Clock. Tutti sentivano che era ora di legittimare con un traguardo storico una superiorità che ai loro occhi era evidente ma non ancora definita. Forse sarebbe bastata quello per chiudere una volta per tutte i conti col passato e aprire un capitolo nuovo della rivalità con il Milan. Un capitolo in cui l’incubo sarebbe diventata l’Inter. Un’Inter bella come mai, moderna, elogiata in tutta Europa. Ma il destino si è divertito e ha deciso di mettere il carico.

Quando ha cominciato a prefigurarsi la possibilità di vincere lo scudetto nel derby, gli interisti hanno realizzato uno scenario che nemmeno la loro immaginazione era arrivata a sondare. Quante possibilità c’erano di poter vincere la seconda stella in casa del Milan? Quante possibilità ci sono che si verifichi una circostanza simile in futuro? Hanno iniziato a fare i calcoli come ragionieri zelanti, fino a quando quell’opportunità non è diventata concreta. Sarebbe stato l’epilogo perfetto di un percorso che dura da tempo, per qualcuno da oltre vent’anni. Il definitivo ribaltamento dei rapporti di forza della stracittadina. E così è stato. Nonostante la posta in palio è stato un derby simile agli ultimi, con l’Inter in pieno controllo del contesto e il Milan che restituiva una sensazione di impotenza. Fiacco, dimesso, inferiore. Con il modesto Adli come unico baluardo a difesa del castello del milanismo, un’ottima fotografia del solco che si è creato.

In quella serata fredda e insieme bollente stava confluendo tutto, passato presente e futuro. A un certo punto le telecamere hanno indugiato su un bambino milanista che piangeva in tribuna. In quel momento, in quell’immagine, molti interisti alla tv hanno riconosciuto se stessi, hanno pensato che una volta quel bambino erano loro. In un passaggio di Verso Betlemme, Joan Didion ha scritto che «è saggio mantenersi in buoni rapporti con le persone che eravamo un tempo, altrimenti si presentano senza preavviso e ci sorprendono, martellando la porta della mente alle quattro del mattino con la pretesa di sapere chi li ha abbandonati, chi li ha traditi, chi farà ammenda». Nessun interista può dimenticarsi chi è stato, nessuno può rinnegare quella sofferenza, quella sensazione di subalternità in cui ha galleggiato a lungo. E quella sera i tifosi che eravamo un tempo non hanno avuto bisogno di martellare alla porta della mente, perché la porta era aperta e noi eravamo felici di accogliere la nostra versione disgraziata per mostrarle con orgoglio questo nuovo panorama.

Da qui si poteva vedere un incanutito Pippo Inzaghi, simbolo di un Milan leggendario, che dagli studi di DAZN si complimentava col fratello Simone per uno scudetto storico conquistato davanti a quello che un tempo era il suo popolo. Si potevano vedere i tifosi del Milan che si affrettavano a lasciare San Siro mentre partiva il frastuono della techno per coprire i festeggiamenti dell’Inter. Si poteva vedere Calhanoglu in lacrime, protagonista assoluto di questo scudetto vinto davanti ai suoi ex tifosi. Si poteva vedere la notte perfetta, con un cielo scuro in cui però brillavano due stelle.