Storia completissima degli italiani in MLS

Da Donadoni e Caricola negli anni '90 al trio Insigne-Bernardeschi-Criscito a Toronto: perché i giocatori italiani hanno spesso scelto di partire per gli Usa e come hanno contribuito, e stanno contribuendo, a cambiare il soccer.

Non è facile prendere sul serio la Major League Soccer. Nonostante i grandissimi passi avanti fatti negli ultimi 25 anni, dal semidilettantismo che ancora permeava il calcio americano negli anni Novanta – stadi minori in cui le linee del campo da calcio si intersecavano posticciamente e improvvisamente con quelle degli sport maggiori, pubblico che si accomodava in spalti usa e getta simili a quelle tribune di legno e colla vinilica che si potevano attaccare al campo del Subbuteo, partite che per regolamento non potevano finire con un pareggio e che quindi venivano ogni volta trascinate nella surrealtà dello shoot out – facciamo ancora un po’ di fatica. Non tutto si spiega con lo snobismo e con l’eurocentrismo, che pure c’entrano sempre quando si parla di calcio al di fuori dei confini del Vecchio continente. Nel caso della MLS, c’entra anche l’atteggiamento che gli stessi giocatori hanno nei confronti del campionato.

Si dice sempre che nessun calciatore va a giocare a pallone negli Stati Uniti: ci vanno a vivere negli Stati Uniti. Per le ragioni banali e assurde che dalla seconda metà dell’Ottocento in poi hanno portato il mondo intero negli Stati Uniti. Tanti, tantissimi, ci vanno per i soldi. Tanti, diversi, ci vanno per l’american way of life (esiste ancora? Sono sicuro che per i calciatori sì, come esiste ancora per tutti i miliardari). Altri, alcuni, ci vanno per riposarsi (svernare non si dice più). Hogo Lloris è andato a giocare a Los Angeles perché è un grandissimo fan di GTA e tanti videogiochi della saga sono ambientati in una versione fittizia della città ribattezzata Los Santos. Chi va negli Stati Uniti a giocare a pallone, dunque? Gli italiani, forse.

Chiariamoci: le ragioni che spingono un calciatore ancora in attività a trasferirsi negli Stati Uniti che ho appena elencato valgono anche per gli italiani (tranne la passione per GTA, quella vale soltanto per Lloris). Tanti soldi, pochi impegni, molto relax: qualsiasi lavoratore al mondo accetterebbe un’offerta riassumibile così. Anche i calciatori italiani decidono di andarsene negli Stati Uniti per queste ragioni. Quasi esattamente un anno fa, però, mi è capitato di leggere dell’esasperazione di Bernardeschi dopo una sconfitta subita dal Toronto FC contro l’Atlanta United: «Non giochiamo. Facciamo solo lanci lunghi. Non abbiamo un’idea di gioco. Credo che questa città, i fan, tutti, non si meritino una cosa del genere. Credo ci sia il bisogno di cambiare qualcosa. Abbiamo bisogno di fare più tattica. Abbiamo bisogno di idee di gioco, perché per me il problema è questo. È impossibile giocare senza un’idea».

Queste parole portarono ovviamente a un notevole scazzo con l’allenatore Bob Bradley – sì, il padre del Michael Bradley che ha giocato anche nella Roma. Scazzo vinto alla fine da Bernardeschi: nello scorso giugno Bradley è stato esonerato e sostituito dall’allenatore ad interim Terry Dunfield. Mettersi a litigare con Bradley non è cosa banale per un calciatore che giochi in MLS: Bradley è uno dei più importanti allenatori della storia del soccer, forse il più importante. Leggendo di questa storia mi sono chiesto, con stupore: ma allora a Bernardeschi importa davvero del Toronto Fc? Non solo di quello che succede in campo ma anche di come succede? Vuole fare la tattica in allenamento e vedere idee applicate in partita? Ma allora cosa se ne è andato negli Stati Uniti a fare?

C’è da dire però che il mio punto di vista sull’esperienza canadese di Bernardeschi era inquinato dallo snobismo e dall’eurocentrismo di cui sopra. Quando lui, Insigne e Criscito firmarono per il Toronto Fc, per gli osservatori imparziali e attenti fu un segnale di un cambiamento nello stato delle cose del calcio americano. Un cambiamento magari piccolo, forse impercettibile, ma pur sempre un cambiamento. Negli anni precedenti all’arrivo di Bernardeschi-Insigne-Criscito a Toronto, i rapporti tra il calcio italiano e quello americano erano stati quelli di sempre. La MLS era (è ancora) uno dei viali del tramonto percorribili alla fine della carriera, ma rispetto alla via della seta imboccata da Cannavaro per andare in Cina, al tour tra Australia e India fatto da Del Piero, al conformismo saudita al quale ha ceduto Gabbiadini, rimaneva (rimane) uno dei viali del tramonto meglio illuminati: è molto più facile seguire le sorti del Toronto Fc che dell’Al-Nassr, per capirci.

Negli anni, il viale del tramonto americano lo hanno percorso Chiellini, Corradi, Cudicini, Di Vaio, Donadel, Ferrari, Mancosu, Mannone, Nesta, Nocerino, Pirlo, Rossi (Giuseppe). L’esperienza del calciatore italiano negli States era questa: uno anno, forse due, magari pure tre di quasi sabbatico, prima di tornare in Europa e decidere cosa fare davvero con il resto della propria vita. Certo, ci sono state alcune notevoli eccezioni, in un senso e nell’altro, vero l’alto e verso il basso: i sei mesi di Daniele Paponi al Montreal Impact prima di tornare in Italia, in C1, all’Ancona; le nove presenze con lo Sporting Kansas City di José Mauri, la cui presenza nella lista Wikipedia dei calciatori italiani che hanno giocato in MLS è l’unico modo per ricordarsi (scoprire) che Mauri ha il passaporto italiano e ha pure giocato in Nazionale, nelle giovanili. Poi, l’eccezione in altro senso: Sebastian Giovinco, che proprio a Toronto è diventato superstar, legend, come si usa dire seguendo il glossario del calcio in lingua inglese.

Su Giovinco torniamo subito, prima però una breve digressione storica. Tutti i calciatori di cui sopra hanno seguito un sentiero tracciato negli anni Novanta da Roberto Donadoni e da Nicola Caricola, entrambi ai MetroStars di New York, seguiti poi da Walter Zenga (in quelli che oggi sono i New England Revolution) e da Giuseppe Galderisi (tra New England e Tampa Bay). Donadoni e Caricola sono entrati, verrebbe da dire loro malgrado, nella mitologia della MLS. Donadoni è stato il protagonista della prima simulazione diventata fatto di cronaca calcistica negli Stati Uniti, alla fine di una partita finita in pareggio contro i San Jose Earthquakes.

Caricola, invece, è allo stesso tempo la vittima e l’origine della prima maledizione – un giorno scriverò del rapporto tra calcio e misticismo, in particolare del legame tra mitologia del calcio e maledizioni varie – della storia della Mls. Nelle sue prime tre partite in America, Caricola segnò due “mezzi” gol e un autogol. I mezzi gol (tocchi di Caricola su palloni che sarebbero finiti in porta lo stesso, quindi da regolamento dell’epoca la marcatura spettava a chi aveva tirato in porta o comunque effettuato la deviazione che aveva indirizzato il pallone verso la porta) li segnò nel suo debutto in MLS contro il Los Angeles Galaxy e nella sua terza presenza con i MetroStars, contro il Colorado Rapids. L’autogol – il primo nella storia dei MetroStars – arrivò invece contro il New England, partita giocata al Giants Stadium. A costringere Caricola all’errore fu Alexi Lalas, il primo statunitense senza avi italiani a giocare in Serie A, nel Padova. La maledizione di Caricola cominciò così ed è raccontata ancora oggi: c’è un video sul canale YouTube ufficiale della MLS, memoria storica del campionato americano, che la tramanda. Sia Caricola che Donadoni sono ancora oggi due dei volti più presenti su Metrofanatic.com, sito della tifoseria newyorchese dura e pura, autoassegnatasi la missione di conservare il ricordo del calcio newyorchese prima che il capitalismo mondiale ci appiccicasse sopra il logo Red Bull e facesse dei MetroStars solo un altro asset in un altro portafoglio d’investimenti. Ovviamente, su Metrofanatic.com c’è una pagina dedicata alla Curse of Caricola. Fine della digressione storica.

Donadoni e Caricola parlano con un arbitro vestito in modo sgargiante: siamo nel 1996 e loro sono i primi italiani in MLS (Simon Bruty/Allsport)

Giovinco, dicevamo. Il fatto che Giovinco abbia vissuto il miglior momento della sua carriera proprio in MLS – certe volte le statistiche bastano e avanzano a provare un punto: 68 gol in 114 presenze – ha portato a Toronto ma non solo a Toronto un cambio di paradigma. Ne scriveva James Nalton un anno fa sul Guardian, in un pezzo intitolato “Can Toronto FC’s new Italian influx mark a return to MLS glory?”. Una delle tesi deducibili dall’articolo di Nalton era che l’operazione Giovinco-Toronto aveva stabilito un precedente al quale la MLS tutta avrebbe dovuto prestare attenzione, un precedente che imponeva di ripensare il rapporto tra calcio americano e calciatori europei al fine della crescita di tutto il movimento Usa. Non più vecchie glorie che vengono a prendersi una pausa, basta con le passeggiate rilassate lungo il viale del tramonto.

Se è vero che la MLS deve produrre talenti da esportare nel Vecchio continente (e lo sta facendo), è vero anche che dall’Europa deve iniziare a importare un altro tipo di calciatore. Uno che sia ancora un calciatore, appunto: uno con un pezzo di carriera ancora da fare, uno da strappare alla concorrenza europea. L’arrivo di Insigne e Bernardeschi è stato un primo passo su questo nuovo cammino: entrambi sono arrivati nella MLS essendo ancora dei calciatori veri, con un pezzo di carriera da fare e che avrebbero potuto fare in una delle diverse squadre europee che li avrebbero voluti. È il “new Italian influx” di cui scriveva Nalton, che ha toccato sicuramente Toronto – una città in cui un’operazione del genere è logica: ci vivono i tantissimi discendenti dei tanti italiani che nel 1982 bloccarono il traffico per festeggiare la vittoria del Mondiale, e d’altronde la diaspora dei calciatori italiani in America comincia proprio con il tentativo di convincere i tantissimi italo-americani di New York ad andare allo stadio a vedere le partite delle squadre locali – e che potrebbe, dovrebbe, toccare tutta la Mls.

Certo, le cose fin qui non sono andate benissimo, non sono state facilissime per questi “nuovi” italiani d’America. Del benessere mentale di Insigne non è dato sapere, arroccato com’è (come sempre) dietro quel silenzio che è tratto caratteriale più che posa pubblica. Bernardeschi, dal canto suo, dopo quello scazzo con Bradley è diventato l’oggetto dell’amoreodio che ogni tifoso vero ha con i suoi giocatori a seconda delle circostanze e del momento. Recentemente è comparso su Reddit un thread intitolato “Is Bernardeschi the Problem?”, estremamente articolato e molto partecipato. Forse è anche questo il “New Italian Influx” sul calcio americano: l’importazione della polemica permanente. Ma anche questo sarebbe un fatto positivo: alla fine anche di questo è fatto il calcio vero.