Antonio Conte è già un allenatore superato?

Lui punta a un top club e avrebbe tutto ciò che serve, ma ha anche manifestato dei limiti difficilmente sormontabili. E allora qual è la squadra giusta per ripartire?

La parte più bella del calciomercato a ciclo continuo è che le notizie vere diventano indistinguibili da quelle solo verosimili e dalle fesserie più assurde. È tutto un grosso esercizio di stile, un gioco che stimola la fantasia. In questo media center montessoriano, la notizia che accosta Antonio Conte al Bayern Monaco per la prossima stagione non deve necessariamente essere veritiera: vogliamo solo sapere se forme e colori possono incastrarsi nel modo giusto. E subito possiamo riconoscere che la logica contiana sarebbe rispettata, perché l’allenatore raccoglierebbe l’eredità dell’unico Bayern incapace di vincere la Bundesliga nell’ultimo decennio abbondante, quindi andrebbe in Germania per invertire una tendenza negativa, come ha sempre fatto. Dall’altro lato, il club bavarese comprerebbe l’assicurazione sui prossimi campionati – con Conte sulla panchina dell’Allianz arena, le probabilità di vittoria della Bundesliga 2024/25 salirebbero intorno al 99,9%, con un margine d’errore nell’ordine dello zero virgola.

Le certezze, però, si fermano qui. Perché il Bayern sembra una squadra irrecuperabile, apparentemente ingestibile, in cui neanche l’arrivo dell’attaccante giusto è riuscito a evitare il collasso (il pezzo mancante per completare la rosa dello scorso anno era proprio Harry Kane). Non è bastato Nagelsmann e nemmeno Tuchel, e forse non avrebbe senso chiedere proprio ad Antonio Conte di razionalizzare una squadra che deve tornare una seria contender in Champions League. A maggior ragione dopo l’ultima esperienza in panchina, dalla quale è uscito parecchio ridimensionato. E nessuno si aspettava potesse andare così.

Al Tottenham, infatti, Conte sembrava aver trovato il posto perfetto. A novembre 2021 gli Spurs venivano da un sesto e un settimo posto in Premier League, e i primi mesi con Nuno Espírito Santo promettevano anche peggio. Conte ha ereditato una squadra senza bussola e con un motore in panne, ma ci ha messo pochissimo per darle una nuova spinta. È quello che Conte ha sempre fatto in carriera, dalla Juventus all’Inter, passando per il Chelsea e la Nazionale italiana. Dopo i primi mesi in cui ha rigenerato una squadra distrutta, però, non è riuscito ad aggiungere granché: non ha dato un nuovo status al Tottenham, non è riuscito a elevarlo ai vertici della Premier e nemmeno a seminare qualcosa per un bene futuro. Anzi, nella sua seconda stagione in panchina l’umore di tutto il club è sempre stato da qualche parte sui toni del grigio, le dichiarazioni a mezzo stampa di Conte erano sempre velenose, i giocatori stessi definivano l’ambiente in spogliatoio «tossico» e «marcio». Nulla di molto diverso rispetto alla disastrosa gestione Mourinho, nonostante risultati migliori.

Il passaggio a White Hart Lane ci ha consegnato un Conte indebolito, privo di quella fame e di quella vitalità che avevamo sempre riconosciuto a lui e ai suoi giocatori, un Conte fiaccato dagli impegni e dagli eventi – va sempre ricordato che ha perso tre persone a lui care in pochi mesi, e questo giustifica molte cose. Certo, Conte sembra aver perso il tocco magico nel contesto di una Premier League ipercompetitiva e sulla panchina del Tottenham: una combo letale per chiunque. Però lui stesso sembrava rassegnato a un approccio fatalista, considerava irreversibile il destino perdente del Tottenham, una società condannata all’infelicità e altre emozioni negative. Eppure oggi gli Spurs hanno un altro allenatore e il clima è diverso, non sembra impossibile essere brillanti e felici.

Allora forse non è/era solo il Tottenham il problema. Forse è/era anche Conte. Nel 2024 è giusto mettere almeno un punto interrogativo sul futuro di un tecnico tra i più innovativi degli ultimi anni, uno dei più vincenti (se rapportato alle esigenze e alle possibilità delle squadre allenate), ma forse non più all’altezza di un grande club o di un underdog che vuole trasformarsi in vincitore. Può sembrare un paradosso: la sua ambizione personale e i suoi successi passati dovrebbero legittimare una certa ambizione, però allo stesso tempo i suoi limiti in campo e fuori gli chiudono le porte dei club a cui dovrebbe aspirare.

Da quando Conte era la prima scelta di un club come il Chelsea ed era cercato da molte big d’Europa, il calcio è cambiato, più volte. Lui no. Il tecnico brillante degli anni juventini si è avvitato su una rigidità tattica incompatibile con le esigenze delle grandi squadre. Il rombo di costruzione basso, lo scambio di posizione meccanico tra le punte, i tagli esterno-interno per attaccare in verticale e tutte quelle giocate codificate che sono state il suo marchio di fabbrica oggi vengono intese in maniera sempre più relazionale, inserite in un flusso di gioco che ha bisogno di interpretazione più che di esecuzione.

I primi a notarlo sono i giocatori stessi. Al Tottenham i senatori dello spogliatoio hanno iniziato presto a manifestare la volontà di giocare con più libertà, sentendosi limitati dagli automatismi obbligati di Conte. E come riporta The Athletic, questo ha fatto esplodere anche le lamentele sui metodi di allenamento, la ripetitività di certi discorsi, i dialoghi piatti tra squadra e staff tecnico: «Ci sono alcuni allenatori con capacità umane eccezionali, che sanno come avvicinarsi ai giocatori in difficoltà, mettergli un braccio intorno alle spalle e dar loro fiducia nei momenti difficili. Conte non è uno di questi». Eppure è lo stesso allenatore che faceva del miglioramento dei singoli – almeno quelli che selezionava lui per condurre le sue crociate – uno dei suoi punti di forza. Creare problemi con lo spogliatoio può essere esiziale per chiunque. Nel calcio del player empowerment, di calciatori che si percepiscono come aziende individuali, almeno a certi livelli, nessuno accetta di perdere una stagione perché non c’è connessione con il tecnico. L’insofferenza cresce come l’erbaccia, è infestante e i giocatori hanno un mercato che li rende asset molto ben più rilevanti di un allenatore.

Nella sua ultima esperienza, sulla panchina del Tottenham, Antonio Conte ha messo insieme uno score di 41 vittorie, 12 pareggi e 24 sconfitte in 77 gare di tutte le competizioni (Ryan Pierse/Getty Images)

È anche difficile immaginare il dialogo tra il Conte delle ultime stagioni e il board dirigenziale delle più importanti società del mondo. C’entrano anche le sue uscite in conferenza stampa e quell’aria di eterna polemica con l’universo. Potrebbe essere solo una questione di forma, ma per le superpotenze del calcio valgono le stesse regole della diplomazia internazionale: fare l’allenatore è come essere il ministro degli Affari Esteri o l’ambasciatore, o qualche incarico di rappresentanza dove la forma è anche sostanza. Se alleni il Real Madrid, il Bayern Monaco, il Liverpool, non puoi andare in conferenza stampa, sparare a zero su dirigenza e giocatori, e farla franca.

È probabile che per certe squadre un tecnico come Conte non sia più sostenibile, di sicuro non per un progetto a medio-lungo termine. Allora la soluzione potrebbe essere quella della via italiana, un campionato tra i migliori d’Europa ma che ancora fatica a produrre club di primissimo livello. Qui teoricamente potrebbe trovare il contesto giusto per ripartire. Ma dove? Difficilmente tornerebbe all’Inter o alla Juventus – dove pure avrebbe margine per fare cose belle. Potrebbe andare al Napoli, ma metterlo nella squadra di Aurelio De Laurentiis sarebbe come azionare una bomba a orologeria dal minuto uno dopo la firma sul contratto: basta immaginare una sua eventuale reazione dopo un’estate passata a chiedere un centrocampista titolare, e mentre lui sogna Barella ADL gli presenta Cajuste con un sorriso da orecchio a orecchio dicendo «non ringraziarmi, è il minimo che potessi fare».

Il Milan sarebbe un’opzione, così come lo sarebbe la Roma se non avesse trovato in De Rossi un allenatore con cui si può guardare al futuro. Ma il Milan e la Roma forse non bastano a Conte, uno che ripete sempre di voler vincere e vincere subito e a tutti i costi. Nella sua prima e unica intervista dopo l’ultimo esonero, un mese fa, ha detto al Telegraph: «Lo spettacolo non basta, le mie squadre devono vincere». Solo che Antonio Conte non sembra più all’altezza della sua stessa ambizione, delle squadre in cui si immagina e con cui vorrebbe vincere. Per dimostrare di essere cambiato, di essere migliorato e di essere ancora (o di nuovo) un allenatore di primissimo livello dovrebbe fare un passo indietro. Ammesso che sia disposto a farlo.